A tu per tu con… Gianluca Nicoletti

Dopo questo incontro siamo più forti e questa forza ci viene da un racconto appassionato e disincantato al tempo stesso.Gianluca Nicoletti, noto giornalista radiofonico di Radio24, ci ha parlato della sua esperienza con il giovane figlio autistico e lo ha fatto con calore e trasparenza, non nascondendo nulla delle difficoltà che vive ogni giorno. Il suo libro Una notte ho sognato che parlavi, edito da Mondadori, è un racconto autobiografico dolceamaro, in cui c’è spazio per le tante situazioni di un’esistenza non comune insieme al bisogno di far conoscere una realtà troppo spesso nascosta.

Lei si è scoperto un padre di straordinaria forza. Quando si è reso conto che Tommaso era un ragazzo speciale, un ragazzo che aveva bisogno di particolari attenzioni?

Quando è nato mi sono reso conto subito che aveva qualche problema, ma che fosse così difficile da gestire si è compreso quando lui è diventato adolescente. Col primo attacco epilettico ho capito che mio figlio, bello, grande grosso e robusto, era però fragilissimo e soprattutto aveva bisogno di un padre che non lo lasciasse solo un istante. A quel punto siamo diventati una cosa sola: ho articolato la mia vita, il mio lavoro, le mie emozioni, qualunque cosa io debba fare, sui ritmi di mio figlio. In questo modo lo abilito a vivere in mezzo alla gente: quando devo muovermi necessariamente e vedere persone, faccio qualcosa per lui; dall’altra parte, facendomi entrare nel suo fantastico mondo di indifferenza verso le attese del prossimo, lui fa un regalo a me.

Nel libro scrive una frase che mi ha colpito molto: «Tommy è la mia ombra silenziosa». Cosa significa per lei avere un’ombra?

Non mi ero mai accorto di avere un’ombra, perché di solito non mi guardo mai dietro le spalle, guardo sempre avanti. Avere un’ombra è avere qualcosa di te stesso che ti riflette. Di solito i figli, secondo un ordine naturale e auspicabile delle cose, quando diventano adolescenti abbandonano completamente l’idea di avere dei genitori e diventano autonomi. Per Tommy non è così. Nel suo orientarsi in un universo deserto, dove non riconosce l’esistenza di esseri umani che gli diano sollievo o non lo mettano in agitazione, è incappato in un padre che per lui è un’isola da cui non si riesce a staccare. Il vero lavoro sarà questo: quanto prima trovare la maniera perché gradualmente (e possibilmente senza un lancinante dolore) io riesca a staccare la mia ombra da me; a differenza di quanto accade in natura normalmente, infatti, mi sopravviverà e un’ombra senza prototipo è un’ombra persa. Devo fare in modo che acquisti una sua identità e si senta in diritto di poter esistere, esser felice, pur essendo un’ombra in un mondo di uomini che in realtà non riflettono nulla.

È molto bella l’immagine del tandem. Cosa rappresenta per voi?

Il tandem è la realizzazione moderna e tecnologica dell’antico mito del centauro: un essere mitologico mezzo uomo e mezzo cavallo, che di solito era l’istitutore dei giovani aspiranti eroi. Se li prendeva sulle spalle, li portava dietro e ragionava con loro di filosofia, di letteratura e di scienze varie. Il tandem permette di ricostruire questa sorta di rapporto di due persone che sono legate, camminano insieme e l’uno è la guida dell’altro. Nel tandem Tommy sta dietro, è il motore: cerco di farlo pedalare il più possibile, mentre io sto alla guida. Per lui è fantastico, perché gli permette di attraversare il mondo su una struttura che tecnologicamente lo tiene avvinto a suo padre, di cui lui è una parte, ma finalmente sente di poter fare qualcosa di utile. È la formula perfetta in cui puoi dare autonomia ad una persona autistica, pur mantenendo l’idea che devi darle una guida.

Nel suo racconto si alternano spesso dei toni allegri e ironici a tratti più struggenti, che toccano le corde dell’anima nel profondo. È lo specchio della vostra quotidianità?

Sdrammatizzare, ironizzare, non prendere nulla sul serio è la formula strategica che ho messo a punto per riuscire a vivere in maniera abbastanza serena. Sì, perché se solo per un attimo mi fermo a pensare che la mia vita è così condizionata mi dico «Mamma mia, che vita brutta faccio!». Allora cambio prospettiva: «Vedi la mia vita è un po’ difficile, ma posso avere dei momenti in cui son tranquillo, in cui mio figlio sorride. Ce ne andiamo insieme a fare una passeggiata, una gita, scappiamo fuori dal mondo, io e lui: ridiamo in faccia al mondo intero! » Allora do un senso anche a quello che faccio.

Possiamo dire quindi che questo libro sia un atto d’amore? Qual è l’intento di questo lavoro?

Io fisiologicamente ho un senso di repulsone fisica per tutto ciò che viene definito “atto d’amore”: l’unico atto d’amore che conosco è l’atto immediatamente legato ad un momento di fulminante passione, che si esaurisce divorando se stesso. Il resto è una presa di coscienza di alcuni doveri, è una piacevole maniera di vivere in sintonia con una persona da cui si hanno comunque delle cose in cambio. L’amore gratuito, l’amore folle, l’amore del darsi agli altri sono terminologie che non appartengono alla mia vita, al mio modo d’essere. L’amore è un atto di passione e di condivisione in cui ognuno dà qualcosa all’altro, con la certezza che poi passerà e diventerà qualche altra cosa: è un assemblare la propria vita in ragione di un’esigenza a cui non si può sfuggire.

Una notte ho sognato che parlavi” è il titolo del libro, tratto da una frase che viene riportata nella narrazione. Ce la può spiegare?

Il sogno più ricorrente che fa un genitore di bambino autistico è che il figlio possa, in qualche modo, come per magia, verbalizzare e articolare discorsi: è impossibile, non accade mai e non so nemmeno se si debba auspicare. Se io passassi la vita immaginando che mio figlio parlasse, sarei infelice io e farei di lui un infelice. Non è un obbligo che lui parli, ma che riesca a trovare delle maniere di comunicare ed esprimere i propri bisogni, le proprie esigenze. Il flusso onirico però non lo comandiamo noi, non lo condizioniamo…e quindi sogno ogni tanto che Tommy mi parli e il paradosso del sogno è che lui fa discorsi articolatissimi, complessi, profondi, metafisici.

La nostra società secondo lei è pronta a fare i conti con l’autismo, questo problema che è in realtà molto diffuso?

Nella maggior parte di Paesi avanzati, ma anche in alcuni luoghi del cosiddetto “Terzo mondo”, ad esempio in Messico, c’è una visione molto interessante e avanzata dell’autismo. In Italia purtroppo siamo molto arretrati: resta ancora un profondo pregiudizio di tipo ideologico e teologico per cui si ritiene che il disagio psichico vada comunque tenuto nascosto. Ci sono ancora madri di autistici che si sentono dire «Ma lei quando allattava suo figlio lo guardava negli occhi?» Lo dicono per colpevolizzarle, come se avessero mancato qualcosa al sacro dovere di essere madri. Questo è un libro abbastanza controcorrente, che richiede un approccio laico, disincantato, non fideistico e soprattutto non rassegnato: è il libro in odio di tutti quelli che ti dicono «Eh sì, tu che hai avuto questa croce, vuol dire che il Signore sapeva che eri preparato per sopportarla…». Manco per idea, io non ero preparato! Non vorrei nessuna croce e vorrei lasciarle a chi le ha.
Però mi conforta, mi fa piacere che tante madri e tanti padri leggendo questo libro dicano: “Ah, finalmente! Qualcuno parla di noi esattamente come siamo”.

Milanese di nascita, ha vissuto nel Varesotto per poi trasferirsi a Domodossola. Insegnante di lettura e scrittura non smette mai di studiare i classici, ma ama farsi sorprendere da libri e autori sempre nuovi.

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