Luoghi dell’esistenza e luoghi del cuore, luoghi del ricordo e luoghi che attraversi: sono lì, in quel viaggio della memoria e del presente che Giulio Scarpati ripercorre in “Ti ricordi la Casa Rossa ?” (Mondadori), una sorta di lettera, di dialogo con la madre, affetta dal morbo di Alzheimer, alla quale l’attore, che qui – anche quando parla di sé e del suo lavoro – è prima di tutto figlio e come tale narra, ricorda ciò che la sua memoria invece perde inesorabilmente a causa della malattia.
Un libro di coraggio e poesia. Perché ci vuole coraggio a mettere a nudo la propria storia, i propri ricordi, i propri sentimenti. E poesia, perché poetico senza essere artificioso, senza essere costruito, ma con la schiettezza e il modo diretto che è quello con cui si parla a chi si vuole bene. E Scarpati scrive di questi ricordi, di questo dolore, di questo amore, facendo sentire la sua storia, la loro storia, che potrebbe assomigliare, nella sofferenza e nella speranza, a quella di tante altre famiglie che si trovano ad affrontare tale malattia.
E di questo libro che commuove, emoziona, ci pone davanti a una realtà che è ancora poco conosciuta, parliamo proprio con l’autore.
Nel leggere “Ti ricordi la Casa Rossa?” si avverte quasi la sensazione di avere sicuramente a che fare con una storia personale, ma che assume quasi connotati corali, non solo perché riprende i ricordi di tante persone che hanno caratterizzato la vostra vita, ma anche perché sembra quasi voler far capire che si comprende chi attraversa una situazione come questa: è corretta questa impressione?
Lo scopo era quello di cercare di essere sincero, di riuscire a far capire una situazione. E a condividerla. Dopo la pubblicazione del libro ho ricevuto molti riscontri da parte di persone che non conoscevo, ma anche da parte di persone che non sapevo avessero familiari affetti dal morbo di Alzheimer. Ho voluto raccontare anche una parte di me che voleva rifiutare la malattia, perché non la capisci, rifiuti di capirla. E anche la persona ammalata, quando è ancora lucida, la rifiuta. Ne racconto la progressione e si capisce che le stazioni di questa malattia sono comuni per tutti quanti. E c’è anche la solitudine, quella di chi non sa gestire una malattia del genere. Parlarne non è solo un cercare conforto per se stessi, ma poter condividere e trovare la solidarietà in questa condivisione.
Che cosa le piacerebbe possa nascere dall’esperienza di questo libro?
Mi sono già arrivate segnalazioni di iniziative, anche per far conoscere questa malattia. Io spero di riuscire a canalizzare tutto questo e a farne socialmente un certo uso, di trarre esperienze da questo libro per farlo diventare un’iniziativa sociale. E non mi riferisco al parlare dell’Alzheimer in stato avanzato, ma di creare qualcosa per cui gli anziani possano essere inseriti nel tessuto in cui hanno vissuto. Parlo di case di riposo inserite in luoghi vicini a dove giocano i bambini, per creare una specie di circuito tra generazioni per far rientrare le persone anziane nella comunità, così che la vecchiaia non sia negata, cosa che accade spesso, come fosse la cosa più terribile del mondo. Vorrei delle iniziative di questo genere, non solo sull’Alzheimer. Ho visto recentemente su questa malattia un cartone animato spagnolo che non è male nel far capire gli stadi che normalmente succedono. Ma al di là della conoscenza scientifica, conta poter condividere la sofferenza, non essere soli.
Perché per questo libro ha scelto la forma di lettera?
È un dialogo. Un dialogo immaginario. Parlo con mia madre raccontando molte cose: questo è il modo più diretto per coinvolgere lei e per far entrare chi legge nella dinamica. Non volevo usare artifici letterari, ma creare quello che faccio con lei.
Questo è un libro di ricordi e di memoria, parole che si usano spesso: per lei che cosa significa “memoria”?
Per me il fatto di raccontare è creare continuità con la vita e i processi della vita e della morte. Attraverso il ricordo riscopro tante cose, ci si arricchisce di cose che prima magari non capisci. Parlare di questo è creare continuità con la vita, uno sguardo all’indietro è anche trasferire comprensione, spiegazione. Il racconto vivo dà soggettività, suggerisce emozioni. Credo che il racconto orale sia il modo per capire meglio il passato e per avere una conoscenza più umana.