A tutti è nota l’epoca senza fiabe e delle inculcate sciocchezze pedagogiche, l’epoca dei gesubambini che anno dopo anno non crescono mai, delle zingare megere e dell’uomo nero che i bambini portano via, le une per farli mendicare dopo aver magari tagliato loro mani e piedi, l’altro per chissà che fare. Per opera di queste bislacche narrazioni si aprivano un tempo le porte di un abisso su una realtà in questo modo non mediata da una letteratura e forse, a volte, più impressionante e troppo per essere accolta come tale. Attraverso l’alta scrittura Dickens o London o Céline e chi altri attenuarono l’impressione devastante data loro dal mondo ; la letteratura è uno spioncino, un buco della serratura, un obbiettivo di variabile focale che permette una distanza di bizzarra prospettiva dall’oggetto e ne mette a fuoco una versione alchemica parallela così da renderne sopportabile la vista. Il giornalismo e le paternali eliminano tutto ciò del tutto o in parte.
Il paese, un tempo si diceva il borgo di Vicosógno, è poco conosciuto rallungato com’è sulle due sponde del fiume e a metà della valle da cui mutua il suo nome e adagiato sulle spalle morbide di monti che presto s’inarcano erte verso cime praticabili soltanto agli audaci ; un paese dall’aspetto ridente. Antico, ben provvisto di belle case risalenti alle lotte tra protestanti e cattolici che, dopo i noti massacri delle guerre dei trenta tenebrosi anni, qui trovarono il modo di convivere, gli uni arroccati intorno a un loro tempio di sobrissimo aspetto, ma con un bel portone dai ben oliati cardini, e alla loro lingua nativa ; gli altri intorno alla loro basilica e a un dialetto latino ; il comune adotta e diffonde un parlare nazionale, da tutti letto, accettato e sottoscritto come parte fondante di una comunità spalmata con lo stesso unguento per tutti. Il paese è tranquillo, ha un bell’ospedale attrezzato con i migliori attrezzi e reparti di cura e medici e infermieri di ottima preparazione, con una morgue e persino, ma non annesso all’ospedale, un forno crematorio. È questo edificio di poco fuori dal paese, per essere esatti a cinque chilometri in mezzo alla foresta che lo lambisce; una bella costruzione di architettura moderna, tutta in vetro e cemento, una scatola che ambisce alla purezza semantica del cubo o viceversa. L’energia elettrica per accendere i forni e tutti gli impianti che di essa hanno necessità incluse le celle frigorifere, arriva dritta da una centrale piazzata a monte del fabbricato, allo sbarramento costruito sul laghetto, di suo naturale, formato dal Sógno poco più a valle. Un bel portale, solenne benché elettrico, si apre e chiude a tempo debito ai trasporti funerari che, per quell’andito scaricano le bare su un nastro trasportatore diretto alle camere dei due forni attivi che, beninteso, non sono utilizzati a solo vantaggio di Vicosógno. I fumi di combustione, abbattuti e filtrati da una specie di apposita, chiamiamola marmitta, esalano via per una ciminiera ben dissimulata nel corpo stesso del bastimento. Nessuna dispersione né contaminazione, nessun malodore, solo vapore o, a guardare da una certa prospettiva e con certe luci, il fumo residuo, più caldo dell’atmosfera esterna, dissipandosi nell’aria crea una sorta di fata morgana, un miraggio, una diffrazione che suggerisce l’acqua là dove non c’è. Cose note. Vicosógno possiede un bell’archivio comunale custode di storia locale e non solo, cabrèi e atti di ogni sorta e polverosi come si addice a un archivio di un certo peso e importanza architettonica, fatto com’è dentro di legni profumati dall’età e intagliati con abile arte, e fuori semplicemente bello a vedersi : ampie le finestre con le mensole decorate di putti, ampio ma non troppo il bel portale coi piedritti di pietra intarsiata. C’è un teatro a Vicosógno, piccolissimo ma funzionante, dove la popolazione, nel corso di ogni annata, ama seguire una stagione di piccoli concerti : la musica è la principale passione locale e anche una occupazione per molti, fuori dagli interessi legati ai lavori, alle professioni, ai commerci che a Vicosógno, come ovunque, occupano gli abitanti. Così che c’è un postino timpanista, alcuni medici cellisti, dei pompieri ottoni, commercianti della loro ricca confraternita e artigiani che oltre ai conti, alle pialle, ai cacciaviti maneggiano con cura e non poca attitudine chi il clarinetto, chi l’oboe, chi il contrabbasso, un agente di polizia si diletta con qualche successo allo xilofono e a un certo numero di altre percussioni. Non pochi tra donne e uomini, soprani, bassi e tenori, si esibiscono nel coro che, con il piccolo concerto già descritto sono le due formazioni musicali principali del paese. Ciascuna ha propri orari di prova in una elegante sala che il comune fece a suo tempo edificare all’uopo e una scuola di musica comunale ivi annessa, permette agli allievi di accedere a queste formazioni e avviarsi al mestiere di musicista. Poi ci sono le eccezioni solitarie, uno, che tutti credono matto ma è soltanto autistico, a dispetto della sua difficoltà, ama esibirsi in prodigiosi concertini estemporanei in un angolo della piazza dominata dalla basilica cattolica, l’altro allieta già da un po’ le serate nel teatrino sociale. Il primo è figlio della terra, stanti i genitori contadini, l’altro di chi mette in terra la maggior parte degli abitanti, vista la madre levatrice, una delle tre all’ospedale.
In quest’oasi che qualcuno direbbe di serenità apparve a suo tempo, inaspettato ospite l’Uomo in nero. Nascosto, oscuro, inafferrabile, le mani guantate, il volto invisibile o quasi sotto la vasta tesa del cappello ; un copricapo come non se ne vedevano a Vicosógno dai tempi dei tempi e forse no. Basta andare in una pizzeria per osservare come oggi tutti indossino a tavola il berretto del diporto che non praticano, il baseball, con per solito la visierina rigirata sulla nuca come fanno pare i lanciatori di quello sport o altrimenti i tiratori scelti, snipers, almeno nei film. Anche le donne hanno oggi questa semplice quanto stupida, piccola vanità. Il cappello dell’uomo in nero era invece di autentica originalità ; una specie di combinazione tra quello in uso tra i fiamminghi nel secolo dei roghi e delle guerre, nell’epoca detta barocca cioè, e un sombrero campesino o mariachi pero negro con reflejos azules y verdes petróleo ; un cappello dalla calotta a tronco di cono alta come una vertigine ; un cappello inattuale dunque come inattuale era tutto l’abbigliamento dell’uomo dal portamento severo di un boia, l’incedere variabile ma sicuro di sé, la rhingrave fiamminga che lo avviluppava davanti ad abbracciare il farsetto di cuoio in qualcosa che somigliava a un bozzolo di seta dai grigi densi e cangianti ; o forse era una specie di panciuta mantilla o mantellina o poncho, da sotto il quale spuntavano appena dei calzoni di pelle infilati in uose di cuoio grezzo, ghette alte al ginocchio, chissà se rinforzate di metallo e allacciate ai polpacci con diversi fibbie ; colore piuttosto della cenere o del carbone spento davano in effetti l’impressione che l’uomo vi avesse camminato a lungo in mezzo ; le scarpe non si distinguevano per il colore ma per essere degli scarponi di inusuale fattura, fu notato da qualcuno qualche tempo dopo la prima apparizione dell’uomo, e che producevano al camminare un suon metallico di chiodi, o più precisamente di bullette di acciaio; tutto l’insieme era oscuro. Qualcuno avrebbe detto : l’oscurità.
L’uomo apparve una mattina all’alba e le prime a notarne la presenza furono alcune beghine che frequentavano la prima messa del mattino con devozione degna di migliori o più nobili motivi. Nate arrugginite non facevano niente di male e niente in generale : accendere ceri, strascinarsi sulle ginocchia, mormorare rosari e lettere ai tessalonichési – indigeni di Salonicco – servire al parroco e, chi lo aveva, a un altro uomo per il cui pistillo dall’oscura intenzione, qualcuna tra loro in anni migliori aveva fatto da calice. L’uomo in nero sembrava, Che ci’spettasse, dissero in coro al sindaco, interrogate qualche giorno dopo per le prime circa l’apparizione di quell’estraneo mascherato. Subito non vollero farci caso le vecchie e, N’avéamo anche pressa – dissero – di rientrare in casa a gustarsi i loro caffellatte con dentro tuffate belle fette di pan posso ; il marito eventuale con tutta probabilità si era appena rintanato a far rumori in gabinetto. Quello che le vecchie non videro, perché non guardarono, fu se l’uomo in nero le avesse seguite ; per lo vero, dopo averle osservate a lungo sciamare in direzione delle loro dimore, mossi alcuni passi orientativi verso un vicolo, uno strettone che costeggiava la chiesa per perdersi poi tra le casette alle sue spalle, nel vicolo per scelta si addentrò e, nemmeno fosse stato inghiottito da quel budello, vi scomparve, evaporato proprio. All’inchiesta imbastita dal sindaco in quasi-segreto – il paese è piccolo la gente mormora – nessuno però dichiarò di averlo visto, quel tipo in costume aggirarsi per le stradine lastricate dietro la basilica. Solo qualche giorno dopo questa prima apparizione, era domenica e c’era un sole eccedente per la stagione, da albori di una primavera che da tempo anche lei si presenta inaspettata e un mese avanti, il cappellone nero si ripresentò fuori dal tempio protestante seduto su un antica panchina di pietra all’ombra dei quattro grandi faggi che la ornavano, la piazza non la panchina. Il primo a notare l’uomo in nero fu il pastore, uscito dal tempio come al solito per congedarsi dai fedeli. Vide l’uomo e non seppe se farci caso o no, nonostante la bizzarria di un costume e così inusuale… il pastore pensò subito che si trattasse di una figura in maschera, forse un turista eccentrico o chissà perché uno scozzese… ma lì per lì lasciò perdere e prese a stingere mani. Poco dopo la piazza restò vuota eccetto l’uomo in nero che non muoveva un osso, seduto lì sulla sua panchina. Nemmeno il pastore per qualche secondo si mosse. Poi però si convinse e si avviò verso l’uomo, si fermò a un metro forse meno da colui ma a quel punto non seppe che dire, come interloquire. L’uomo in nero mormorò qualcosa ma così a bassa voce che il pastore, già anziano e un po’ sordo non afferrò ; non ebbe tuttavia il coraggio di chiedere, Prego ; e, Ah capisco, la buttò lì più donabbondio che doncarlo e, Mi scuso, aggiunse e prese di furia la strada di casa, dove come ogni domenica lo aspettava uno dei consueti stufati domenicali che la moglie, cuoca eccellente e pediatra all’ospedale, aveva il gusto di preparare insieme chissà con qualche tiramisù.
Poi ci furono diverse apparizioni, così che quasi tutti in paese ebbero il modo di prenderne atto. La strana figura veniva avvistata e si dileguava ora qua e là, persino al cimitero, persino fuori dall’ambulatorio comunale e molti, tutti, interrogati all’inchiesta o sciolti nel parlare nelle chiacchiere che si innescavano e sviluppavano pian piano tra i negozi e gli studi di questo o quel professionista, dal meccanico o più spesso all’ora del caffè e dei pasticcini, tutti insomma furono d’accordo nel dire che l’uomo davvero pareva una specie proprio bizzarra di turista e con l’andatura di chi passeggia, senza scopo dunque, visto che al tipo, la voce comune confermò, mancava l’apparecchio fotografico o il telefono portatile. Fu visto sfilare il Mascherato lungo il belvedere che dominava la gola in cui scorreva in tumulto il Sógno o fermo sul ponte che divideva in due la parte vecchia del paese con le due diverse chiese, ma a un’ora in cui sono poche le finestre ad aprirsi alla timida luce. Lo vide soltanto un fornaio con la bottega a pochi passi dal ponte e l’apparizione fu così imprevista e improvvisa la sua sparizione che il fornaio non si tenne e fu fuori di bottega in un lampo a guardare giù dal ponte, convinto che il Nero si fosse buttato di sotto. Ma no. Il Tipo era così come una luce che si accende, si agita per poco, trema e si spegne di notte nel buio di una foresta, e non si sa cos’è. Qualcuno, non pochi, i bambini, i giovani dotati di maggiori curiosità degli anziani tra la popolazione residente, qualcuno si prese la briga di tentare un inseguimento ma sempre sempre sempre allo svoltare una cantonata e al passare per uno dei numerosi anditi oscuri o sottoporteghi caratteristici del paese, ebbene pouff, via, l’uomo non c’era più. Cominciarono così a svilupparsi nuvole e avvilupparsi congetture. Spiegazioni ferrate da dimostrazioni ineccepibili non fosse che mancavano di tessuto logico. Ma, come si sa, è naturale, o se non naturale incancrenito nel sentire comune, il bisogno di spiegare e formulare risposte prima ancora che si sia formata e ascoltata una domanda pertinente. Osservare i fatti, indagare se possono avere tra loro e quali connessioni, scartare le prime e le seconde ipotesi circa la loro natura, il non pregiudicare, non pensare, il non credere, pesare, il metodo scientifico insomma, lo stesso di Sherlock Holmes o Maigret dunque, sono attitudini che di rado, mai, appartengono alla folla. La risposta prima di tutto. Presi uno per uno i singoli sono magari portati a farsi opinioni misurate, razionali, ma un istante dopo, in piazza, gli stesso singoli è facile che diventino sciame e dello sciame assumano il pensiero e che dunque prendano il volo in fuga dalla realtà. Rivoluzioni, epidemie, elezioni comunali o del rappresentante di classe si fondano su questo meccanismo.
A Vicosógno le acque presero a tumultuare ma non del fiume, quelle rimasero impassibili mentre le apparizioni si facevano frequenti : l’uomo in nero e in tutta evidenza indifferente al contorno, si aggirava tra gli abitanti che via via si lasciavano in qualche modo avvicinare, tranquillati dal fatto che l’uomo sì qualche volta si trovava a camminare tra loro ma non pareva avere né voglia né intenzione e nemmeno far la viste di prendere alcun contatto con chicchessia ; al contrario qualcuno provò a intercettarlo con la forza, l’uomo in nero, ma a quel punto senza riuscirci ; ad alcuni capitò di urlargli adietro, questa la lezione linguistica comune, nell’ipotesi di spaventarlo o scuoterlo o chissà percuoterlo ; altri infine, e fu un inizio non ancora una fine, decisero così di loro spònte di organizzarsi in ronde diurne e notturne, servisse o non servisse. Questa iniziativa fu presa sul serio dal sindaco che ne imbrigliò la propulsione in una normativa atta, fece scrivere in un editto comunale, a garantire la sicurezza di tutti senza distinzioni. Fu deciso di normalizzare le pattuglie di ronda in gruppi di quattro persone, scelte tra le più muscolose e più svelte nella corsa, le si dotò di un distintivo, di una camicia tra il giallo e il terra di siena per essere ben in vista, di una cravatta bordeaux e di un bastone, di manette e soprattuto di un berretto da baseball, verde mela verde, con cucito lo stemma comunale. Uno spiritoso, isolato, definì questi pattugliatori le cocorite, ma fu presto individuato e messo all’ordine da una scarica efficace quanto imprevista, da quegli, di bastonate. La voce cocorite fu esclusa dal linguaggio collettivo. Questa fu la prima esplosione di violenza. Dopo e dopo l’ennesima apparizione fu indetta una grande riunione comunale. All’ordine del giorno il da farsi, il come farsi, il dove andare a parare. Si scatenò un putiferio di interventi, interrogazioni, in un disordine di mozioni d’ordine e voci sovraccariche queste, roboanti quelle, molte balbettanti inconcludenti e ripetitive o, al contrario, di una pacatezza ostentata e recitata pacate e fuori misura prolisse ; tese tutte a far prevalere una sull’altra la loro propria e spesso appena improvvisata opinione. Nessuna delle voci prese in esame o soltanto in considerazione l’eventualità che per l’uomo in nero, il Mascherato o come avevano preso a definirlo non si trattasse di un demonio sceso cioè salito in terra, né di uno spirito normativamente maligno sortito dalla foresta che costeggiava il paese, cioè dalla leggenda connessa risalente ai tempi in cui colà in una radura si dava fuoco a streghe e stregoni, eretici e semplici astronomi dilettanti, O della morte stessa, ebbero ad agitarsi all’unisono parroco e pastore. Si costituirono dunque gruppi ossessionati ognuno da indimostrabili assiomi e ogni gruppo prese ad avere in uggia le persone di un’altro partito ; montarono a neve ferma in breve, conflitti e rancori basati per lo più su ruggini, la più parte risalenti anche quelle a tempi di conflitti maggiori e devastanti. Le ronde si riorganizzarono secondo di questa o quella appartenenza a questo o quel partito. La strada prese il sopravvento, ci furono agguati, agli agguati seguirono le cacce casa casa, le defenestrazioni, gli assalti sfrontati alla bottega di chi si detestava con rabbia senza motivi o a motivo del successo invidiabile di chi per ciò si voleva morto, nemmeno per questioni di eredità. E di morte, benché dello straniero che fosse la Morte stessa con la maiuscola o un suo semplice agente mono mandatario nessuno per prudenza aveva accettato la possibilità, di morte semplice senza maiuscole si videro i molti episodi : sintomi. Furono incendiate una e poi a due e tre case e un meccanico si vide l’officina devastata e lui, buttato sotto il ponte per sollevare le auto, lì sotto fu schiacciato. A un’ostetrica, una masnada di furie aprì a forza, per forza, il ventre e le fece un facsimile di isterectomia, e mente serena, ma dopo una botta violenta in testa per stordirla se non ammazzarla. Insomma fu battaglia aperta, il sangue prese a correre senza riserve, rispetto, giudizio o banale buon senso. Ultimi a perire in un conflitto a fuoco, da dove fossero saltate fuori le armi non ci fu verso di capirlo, furono in drappello alcuni fedeli alla prima messa mattutina e le beghine ; fulminato sull’altare, mentre levava il calice tremando, fu il prete. Il pastore poi fu crocifisso per ritorsione al portone della sua chiesa e la moglie affogata nel Sógno non senza quella che nella sua Oeuvre au noir Yourcenar chiamò con icastica semplicità la violenza d’uso.
All’alba del giorno dopo l’ultimo eccidio le avanguardie delle truppe inviate sul posto in seguito a varie richieste telefoniche di aiuto, si scontrarono con un terribile puzzo di cadavere e di morte in generale. Tra le pile di defunti, tra i quali i suoi due genitori, il piccolo fisarmonicista si stava aggirando al suon della sua fisa, indifferente. E l’uomo in nero, si domandò qualcuno tra i superstiti, tra gli astenuti o tirati dal peggio indietro a tempo e nascosti quatti quatti nella foresta. Ah l’uomo in nero era intanto scomparso da tempo. Non si può dire da che altra parte si aggiri.
L’immagine di apertura è di Nigel van Wieck – Coat-check girl