L’ElzeMìro – Dopomezzanotte-Twingle twingle

Tuingl-tuingl-arf-arf-tuingl-ringl-duarf-duarf-ringl-ringl-uarf-uarf… Tutto cominciò in una notte nera assai. Nonostante le inconsapevoli assonanze o combinazioni di rima ipotetica e a dispetto del fatto assodato che ognuno sente in modo diverso le stesse cose – le interpreta c’è niente da fare – ebbene nonostante qualche dubbio circa una sua possibile trascrizione, questo tuingl-tuingl-arf-arf-tuingl-ringl-duarf-duarf-ringl-ringl-uarf-uarf, questo che parve rumorino o borbottìo o clìccheteclacchete o come chiamarlo nessuno seppe, prese bensì a circolare in città ora in questa ora in quella strada, una volta per un vicolo oscuro, un’altra per i viali di un parco. Cominciò senza preavviso ma, soprattutto, in principio non fu in nessun modo possibile individuarne la fonte. Si sentì appena appena, accennato più che debole : lo stronfio di un bebè che si agita di notte nel lettino, e i primi a farci caso furono soltanto quelli che a notte alta per disagio personale o per disagi di lavoro sono ancora o già o sempre desti : quel tuingl-tuingl chioccio chioccio si manifestò soltanto tra le due e mezza e le cinque, le ore degli infarti e degli ictus, pare così o, per taluni, dei risvegli improvvisi e angosciosi o doloranti tra lenzuola sfatte e pezzate di sudore. Evidente che tutti senza distinzioni, con l’esclusione di quanti il cui appartamento affacciava su cortili o giardinetti interni, o dei pochi abitanti in villette isolate dalla strada, o di chi lavorasse chissà in sale operatorie o nella penombra notturna di qualche reparto ospedaliero o di diuturna ricerca, insomma insomma a tutti i più capitò di affacciarsi alle finestre, era primavera, per cercare di vedere da che diavolo – diavolo non è un termine casuale – provenisse il rumore. Niente, ma proprio niente riuscirono a vedere : non uno sbreluccichìo metallico, un trappolìno meccanico per quanto piccolo atto a pulire le strade ; ma nemmeno uno spostamento d’aria, un’ombra, niente. Non che fosse fastidioso quel tuingl-tuingl-arf-arf-tuingl-ringl… ma insolito ah bè sì. Va notato che tutti gli animali addomesticati, compresi i canarini in gabbia, fossero o non fossero nel profondo dei loro sogni, zac, al primo tuingl tuin… tutti orecchie aguzze, tutti radiogoniometri giravoltati a catturarne l’origine e a valutarne il possibile pericolo. Gli animali sanno in che modo e in che senso gira l’elica del loro mondo e delle loro vite o, se non lo sanno non ci riflettono e, si usa dire che si parano il culo per istinto, se possono, se ci riescono. I cani al solito poi, figurati, ogni occasione è buona per lanciarsi al davanzale, al cancelletto del giardinetto, al dove loro capiti, per fiondarsi vicendevoli guaìti e latrati da un condominio, da quartiere all’altro : una cagnara senza metafisica. Ma vabbè, il tuingl-tuingl-arf-arf-tuingl… durava poco, non più di un pacchetto di secondi ; per dire il tempo che un pedone impiegherebbe ad attraversare la sua strada per il largo… hmm… o diciamo appena poco più del tempo che un ciclista medio impiegherebbe a passarla per il lungo, e via scomparire.

Molti e molti e molti anni fa la quasi totalità delle giovani generazioni fu presa dalla passione di possedere, coccolare, scambiarsi e attribuire carattere e intelligenza a un oggettino insensato, il tamagoci – tamagochi – ; un balocco virtuale ed elettrico che alcuni portavano al polso in vece di orologio altri ciondolante da qualche parte. La moda o il delirio durò quel che durò poi come ogni epidemia, pandemia in questo caso, anche quella passò. Per motivi analogamente misteriosi mentre la parte adulta della cittadinanza radunata secondo i propri malumori in gruppi o associazioni, sedi di partiti o parrocchie, preoccupata per quell’inafferrabile tuingl-tuingl, prese a sollecitare il sindaco perché facesse qualcosa – fare qualcosa a prescindere – così che esso sindaco smovesse il prefetto affinché incitasse il comandante della polizia ché mobilitasse i suoi potenti uomini e mezzi di rilevazione e indagine, l’altra parte, adolescenti soprattutto e bimbi e quanti l’adolescenza prolungano con limite tendente all’infinito, e più tardi gli appassionati di sushi e poké-bar concordò sul fatto che il tuingl-tuingl-arf-arf-tuingl-ringl non poteva avere un’origine biologica – che era inumano o disumano insomma e per alcuni persino sovrumano – ma poi, chissenefrega : che era carino, dolce, anche cool ; dunque, ci volle un fizz per farne un Leitmotiv, un oggetto transizionale, per quanto immateriale ; così che di giorno il tuingl-tuingl-arf-arf-tuingl-ringl tutto per intero prese a circolare come filastrocca tra i banchi, le aule e, appunto, i tavoli delle cafetèrie, con questo ritmo : tuìngltuingl àrfarf – tuìnglringl duàrfduarf – rìnglrìngluàrfàarf.

È superfluo stare qui a raccontare le sciocchezze e le fantasticherie e le fantastiche scioccherie suscitate dall’ascolto del tuingl-tuingl o, come predetto da Goya, da quella specie di sonno della ragione che è l’opinione, la cosiddetta vox populi che ai fatti si sovrappone ancora prima che questi accadano o al loro improvviso accadere. È impresa priva di interesse perché con poco sforzo ciascuno sa che sarebbe in grado di duplicarle, le scemenze, e di darle in pasto al vicino che ne inventerebbe di nuove cioè del tutto prevedibili, vecchie nell’istante stesso in cui si manifestassero ; ma per concludere il discorso quel verso insensato catturò la gioventù e l’infanzia della città : prese a circolare una trascrizione del sound e alcuni si dilettarono a farsela tatuare fosse dove fosse ma, soprattutto le piccole donne in crescita, in nero sul pancino scoperto dal pull cortissimo o, le più ardite o calorose a grandi lettere colorate sotto la linea del bra o reggiseno. Gli omettolini preferirono la soluzione virile del tatouage sull’avambraccio, destro per gli etero, sinistro per gli omo, in zona lombo-sacrale per gli altri, ché si vedesse al passo dei jeans oversized e ciondoloni. Chi fosse renitente a scoprirsi per pudore o scarsa consapevolezza di sé indossava t-shirt o felpe o quel che capitava con la scritta serigrafata sul davanti o sul dietro. Qualcuni pochi si fecero incidere la strofa insensata in caratteri gotici sul cranio rasato o, in alternativa presero a indossare penzolona dal collo la targhetta, tag, la stessa in uso negli eserciti per riconoscere i soldati post mortem, ma con sopra inciso invece del loro nome il tuingl-tuingl-arf-arf-tuingl-ringl. I più piccini, quelli che ancora andavano a scuola con lo zaino strasciconi sulle gambine corte, lo zaino avevano però decorato, non di rado per virtù di nonne ricamatrici, con quelle che a tutti però sembravano parole, un abracadàbra, in una lingua sconosciuta e indecifrabile e proprio per questo piena di evocazioni. Allegre brigate di bimbi scorrazzavano per giardini e parchi giochi ripetendo in coro quella strofa, che opportune maestre avevano intesa inglese – twingle harf dwarf – e messo in musica per chitarre e flauti e tamburelli gioiosi ; fu un tormentone, il basso continuo subito prima che arrivasse l’estate delle vacanze e che per le vacanze partì pronto all’uso nel segreto dei cellulari sotto forma di textos. Si diffuse l’uso criptico di lanciarsi uozzap il cui unico contenuto fosse : tuingl ?? Arf !! seguiti dalla consueta sovrabbondanza semantica di cuori, faccine o che altro.

Un koan àptico. Vedere però non si vedeva né si sarebbe toccato con mano ancora niente. All’arrivo di settembre tuttavia la comunità di scettici che ancora pattugliava le strade o vegliava alle finestre convinta così di poter catturare l’origine del suono, ben ridotta ormai di numero, fu colta di sorpresa da un sussulto collettivo. La scoperta fu fatta da un gruppo di vedetta sul tetto di uno degli altissimi palazzi che dominavano il centro della città. Dotati di potenti visori notturni acquistati in rete, al manifestarsi del suono gli scettici distinsero con chiarezza ciò che i loro occhi fi-nal-meeen-te, potevano vedere : al suo avanzare per il viale sottostante si materializzò una specie di piccolo – meccano, fu subito detto – ma senza cingoli e al contrario dotato di zampette, hmm gambette dovettero subito correggersi al guardare meglio ; e per quanto l’oggetto fosse rapido nel percorrere la via fu chiaro a tutti da lassù che quel coso aveva… che aveva qualcosa di umanoide, una testa ma molto infantile per esempio e con davanti due fari luminosi simili a occhi, e che gattonava per quanto a una velocità che era poco da infante. Sere dopo l’oggetto fu avvistato scivolare per un viale alberato e ben ritto in piedi, i fari o come chiamarli che aveva al posto o proprio come occhi che spazzavano la strada di qua e di là secondo il movimento della testa… era proprio una testa, un po’ più grande del normale ma testa e su un corpo in generale troppo cresciuto : un corpo da bimbo di tre anni, non fosse che di bimbo non aveva niente altro. Ma qui occorre sospendere il giudizio perché nessuno ma nessuno di quei che ne rilevarono e rilevavano i passaggi, nessuno fu mai in grado di dire se il coso indossasse o no vestiti o di che genere ; chi parlò di carapace, chi di corazzetta, chi di tuta e a qualcuno sembrò che quel corpo ambulante emanasse una curiosa iridescenza ma lo stesso qualcuno precisò trattarsi di una semplice impressione e magari dovuta la fatto che, in quel tempo intanto, la luna aveva preso a illuminare le notti della città. Fu coniato il termine bimbo-elettro-meccanico e alle corte Bem.

Nei salotti di quelli che non se la bevono mai, di quelli che la sanno lunga e dei più accorti critici tra i cittadini accorti si improvvisarono riunioni e cene e convivi informali ma tutti per stabilire se si trattasse di robot secondo quanto scritto da Čapek o di un Golem… un rabbino si esaltò elettrizzato dall’idea che il segreto del suo antico predecessore praghese Löw e dei Meyrink e dei Wegener fosse diventato verità di fede, un provare-per-credere bell’e spacchettato dall’eterno-sia-lodato-il-suo-nome lì per lì in quella città che riteneva popolata da scettici a bagno-maria. L’interpretazione dà la stessa vertigine che dà il potere, che è sempre assoluto, e ci sarebbe da stabilire quale dei due fatti si alimenti dell’altro e in quale maggiore o minore misura. Nondimeno la scoperta del Bem, o come chiamarla, soffiò sulle braci su cui si covano da sé i sempre mai sopiti cospirazionisti a prescindere. Ripreso a più riprese da mille telefonini, il Bem non poteva più essere frainteso, con le gambe di trottola che correva, ma correre non è in nessun modo il termine per descrivere quel moto rapidissimo, illuminandosi da sé il suo percorso lungo lungo la città, con quei suoi occhi, con quelle sue due luminarie, verdazzurrine, credette di vederle più di uno. Il tuingl-tuingl-arf-arf-tuingl-ringl fu chiaro essere il prodotto del suo movimento, un cigolìo di organi ma non umani, e non un rutto o un farfugliare o un chissaché prodotto dalla bocca ; c’era una bocca nella testa e quella bocca serviva a mangiare e tanto e basta. Lungo il suo tragitto infatti Bem fu visto assaltare ora uno ora un altro negozio di alimentari e uscirne masticando. Mangiava dunque Bem e non solo, cresceva cresceva, continuava a crescere e a comparire notte dopo notte, con trascurabili omissioni : in breve fu alto come il più alto dei giocatori di basket ; ma fosse stata solo la statura… tutta la sua struttura si ingigantiva : le braccia, ché oltre alle gambe trottatrici Bem aveva lunghe braccia e mani prensili che si gonfiavano ; ma non si fermò Bem, Bem continuò a svilupparsi e ad allungare il tempo di quelle che ormai erano scorribande per la città : sempre più negozi venivano devastati e non solo di alimentari, ché il gigante, il polifemo il golem si nutriva di tutto e, cosa strana – rilevò un biologo dell’università – non sembrava avesse bisogno di defecare o urinare ; Bem pareva essere dotato della capacità di ingurgitare di tutto e tutto trasformare in energia senza entropia, insomma di essere animato da un metabolismo tritatutto.

La paura gorgogliò di colpo su dalla sua caldaia collettiva, come il caffè per quella della moka personale. Anche il malumore fermentò ; dei commercianti soprattutto, e sarebbe stato difficile non capire i lai di chi in una notte avesse perso, per essere stato devastato sbavato scorticato smangiucchiato – Bem si dimostrava disordinato e sprecone – il suo magazzino di scatolette di tonno, pelati, formaggi preziosi ; ma immaginarsi il viso dell’armaiolo cui Bem aveva fatto fuori la scorta di cartucce di ogni tipo e per un intero anno ; il negozio del persiano che si era ritrovato i suoi tappeti ridotti a fettine, brandelli, straccetti come se Bem non li avesse graditi – ma allora ha un gusto, fu la domanda che prese simultaneamente a correre – ; così di giorno i commercianti ricorsero a sconti e persino alla grande svendita pur di non lasciare merce invenduta casomai di notte… l’ennesima scorpacciata di Bem. I cattivi sentimenti di moltissimi invocarono questi la corte marziale confondendola con l’analoga ma non eguale legge di marzialità, quelli, con maggiore senso di un qualunque senso, lo stato di calamità ; si chiamò di nuovo il sindaco a confronto e il sindaco interpellò questa volta non il capo della polizia ma il generale in capo al corpo d’armata che alla città faceva capo ; si colloquiò a mezzogiorno, si consumarono tramezzini e vino alle una e fu presa una decisione alle due : già al tramonto, una mezza brigata di mezzi corazzati, leggeri per cominciare, prese ora qua ora là a macinare l’asfalto della città e ad appostarsi e vigilare in luoghi strategici benché non si sapesse che cosa potesse voler dire strategico : una compagnia di esperti aveva esaminato con cura i percorsi di Bem e fu chiaro per loro e riferito a chi di dovere non esserci alcun criterio nel suo scorrazzare, nessuna scelta …Va dove lo porta il cibo, concluse in una lezione memorabile un professore di scienze dell’alimentazione.

Tuingl-tuingl-arf-arf-tuingl-ringl-duarf-duarf-ringl-ringl-uarf-uarf… Bem comparve nel mirino di tutte l’artiglieria di due carri fermi a un incrocio. Era l’ora canonica e Bem eccolo di nuovo rapido e visibile, e ci voleva poco da tanto era grande e grosso, e fermo davanti a un magazzino di pneumatici cui aveva già sfondato la clèr e afferrato con le lunghe braccia un rotolo di gomme se le stava già mangiucchiando. Il capitano dei carri comunicò col comando operativo, detto cabina di regìa, dalla quale cabina ai carri fu dato l’ordine fatale di fuoco a volontà. Sotto il tiro a segno nemico, robusto quanto rumoroso e infuocato Bem sembrò però soltanto oscillare nemmeno fosse una peonia o altra pianta in vaso sotto la sferza di un vento impetuoso : si piegò Bem ma non cadde. Passata la buriana di quel bombardamento ed esauriti i proiettili in dotazione parve chiaro allo stupore dei soldati che l’homuncolóne aveva assorbito nemmeno fosse una crema solare tutto quel catafottìo di proiettili di ogni calibro e potenza. Fatto sta che in un soffio Bem fu addosso ai suoi basiti assalitori, diede un calcio ad entrambi i mezzi con la stessa levità che un qualunque viandante avrebbe messo a calciare via dalla propria via un’importuna lattina vuota o altro inciampo di qualsiasi natura. Bem svanì nell’oltre. Più tardi però una pattuglia meccanizzata in perlustrazione avvistò i resti smembrati e sparpagliati e abbandonati di una decina di compagni ; ci fu chi ricordò Polifèmo.

Un’alba pietosa con le dita arrossate di sangue sopraggiunse a rivelare ai molti che uscirono in strada – ormai lavorare non lavorava quasi nessuno – i muri sgretolati dai colpi di artiglieria che seguirono all’impazzata nel delirio dei molteplici avvistamenti notturni, e le finestre i lampioni e le porzioni intere di edifici devastati, nonché le tracce del suo passaggio famelico lasciate da Bem, un Bem supposto infuriato che assaggiasse di tutto, viventi non in scatola compresi e senza darsi una regola o concedere una tregua. In giornata arrivarono rinforzi, furono paracadutati paracadutisti qua e là sui tetti, distribuiti proiettili speciali per ogni tipo di arma, armati i missili delle batterie di missili, stabiliti piani di azione e quadrettata la città in coordinate per coordinare gli interventi di ogni singolo gruppo di fuoco con ogni altro. Insomma la città fu posta d’assedio dal suo interno. Ah fu proclamata la legge marziale, atto che diede sicurezza ai cittadini. La sicurezza di essere nei guai ma… ma ma ma non successe niente né quella notte né per alcune notti appresso. Bem non ricomparve o parve scomparso o parve lo fosse.

Isolati e sparsi abitanti di oscure e lontane valli impervie tra i monti non lontani dalla città. riferiscono a tutt’oggi le urla di strazio, di dolore e di morte che capita loro di sentire da lontano. E su tutto quell’insistente tuingl-tuingl-arf-arf-tuingl-ringl-duarf-duarf-ringl-ringl-uarf-uarf.

L’immagine di apertura è di Nigel van Wieck – Coat-check girl

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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