L’ElzeMìro – Dopomezzanotte-La migliore amica della donna

È noto che l’unità di misura del tempo è il secondo. Al di sotto e al di sopra, come girini nello stagno, pullulano i suoi fratellini a riempire lo spazio tra l’embrione e la ranocchia. Molto tempo è passato tra Achille e la tartaruga. Sicché la percezione del troppo lungo e del troppo corto coincidono in un nonsense ; ovvero in un punto di indifferenza, così lo chiamò il nobile Von Vierordt inventore dello sfigmògrafo s. m. apparecchio che essenzialmente constava di un bottone da applicare su un’arteria e di un sistema di leve che traducevano graficamente i movimenti del bottone su un piccolo chimografo, dispositivo che forniva una registrazione continua della variazione temporale di alcuni processi fisiologici… ad esempio la pressione del sangue mentre corre nelle vene. Affermò peraltro Agostino di Ippona che se non mi chiedono che cos’è il tempo, lo so… se me lo chiedono, non lo so. Il tempo pare dunque stare in mezzo ai suoi intervalli, in una assenza, un vuoto, una buca, un salto, un saltafosso e poiché in definitiva la misura di questi intervalli non è assoluta ma relativa all’osservatore si può dedurre che se a un gatto chiedessimo che cos’è il tempo egli risponderebbe né più né meno che tempo è l’intervallo tra avere un occhio e non averlo più, perché il tuo avversario è – stato – più veloce di te a sgraffiartelo via. E alle lunghe tra esserci e non esserci più. Si conclude che per un gatto il tempo di un secondo, un nulla all’occhio lento dell’umano, è invece un film al rallentatore.

Insomma Tiga, una siamese di nobile bellezza, l’equivalente di una principessa di fiaba, preferibilmente persiana ma non in esclusiva, da qualche, tempo, abitava con la non giovane non vecchia signorina Tina ***, graziosa grecista e docente della materia che del mondo ha per alcuni il migliore suono : del greco appunto. Al primo accenno di trillo del campanello di casa, amici o no quanti oltre la porta – alla porta prima o poi gli umani si presentano e la prudenza è utile – a quello squillo via di corsa a grandi balzi la Tiga e borbottando, via su in cima alla libreria antica di casa, un bel mobile ereditario, dalle antine di vetro e coronato da una balaustra o cornice in legno intagliato. Da quell’alcázar o altana o vedetta, l’atteso o inatteso arrivato, l’ignoto soprattutto in tutte le situazioni simili e senza saperlo veniva passato a uno vaglio fine. A differenza di quello tanto infantile dei bipedi, così disposti a illudersi senza sapere se la mano che li invita è quella del loro assassino, il giudizio dei gatti è inappellabile, divino e non sbaglia : meglio di Lombroso, quasi meglio di Poirot, il felino riconosce il criminale dal suo primo sorriso e dall’odore, dal sudore, dal sentore ; il felino è una macchina della verità o polìgrafo e gira al largo, si ritira, si rifugia dal pericoloso, dal paranoico, dal disturbato. Via via ; peraltro il felino non ama la rissa quando è in evidente sproporzione di forze. Tigre di Mompracem nelle intenzioni della sua natura, per Tiga quella cornice di legno lassù su tutto quel bel mobile libreria – da immaginarsi a sei spaziose ante – si può dire, con qualche sicurezza, rappresentava per lei gli alti rami di un albero malese e le sue fronde, la postazione da cui, non vista, fulminare il serpente e/o la preda a terra. Orbene, tutto in quel caso e per tornare alla frazione tempo, si svolse con l’incalcolabile lentezza di pochi moltiplicati secondi.

In quel pomeriggio – a dog day afternoon… in quel pomeriggio di un giorno da cani – il campanello suonò da subito stonato, come se sull’onda elettrica necessaria a farlo squillare, guizzasse una corrente maligna. Tiga si era piantata all’erta all’erta lassù sulla libreria, il muso, ma nemmeno, gli occhi che appena spuntavano da dietro la cornice del mobile. L’uomo cui la signorina Tina aprì sorrideva. Eccolo lì, il bipede maschio. Qualunque ruolo potesse significare per Tiga la figura dell’uomo le era nota, le era noto e ostile l’odore di quell’umano che in passato e non di rado dormiva al posto di Tiga nel letto della Tina. Dal salotto dove si accoccolava da sola, Tiga li sentiva arruffarsi i due maschio e femmina e, orribile a dirsi, ogni tanto mugulare lui per pochissimi secondi. Ma interminabili. Poi finalmente silenzio e si poteva dormire. In un certo punto sulla strada del tempo la Tina aveva messo alla porta quel tipo e dopo uno scontro gelido, fulminante, inappellabile si era capito. La Tina fu invece, secondo la Tiga, lenta a reagire nella situazione di adesso ; sicché l’uomo ebbe tutto il tempo di strapparle il vestitino di cotonina stampata a leggiadri disegni – la scena la si immagini d’estate – e sorprenderla con schiaffi ripetuti e robusti. La signorina Tina capitombolò a pavimento su un tappeto di ottima fattura – un vasto kilim comprato da una ditta di import ad Amburgo – e a gambe all’aria, ridicola a vedersi, seminuda com’era, e incapace di rivoltarsi a mostrare le unghie e i canini cosa che la Tiga avrebbe saputo benissimo come fare. La gatta si appiattì il più possibile sul legno polveroso del tetto della libreria, non un muscolo rilassato, in attesa, computando il rapporto di forze tra lei e quell’umano. Il maschio si avventò sulla femmina – si avventò, la scelta lessicale è da cronaca nera – la strinse e costrinse la slargò e poi fece di lei ciò che risvegliò nella memoria della Tiga quanto generazioni e generazioni di tighe prima di lei avevano osservato da dietro nascondigli, paraventi, pareti sconnesse e rifugi improvvisati in ogni paese conquistato, in ogni focolare dolente o indolenzito o compromesso da brutalità non minori di quelle di altri bruti, armati di spada o fucile e brutali. I gatti ricordano tutto.

Per distinguere le cose quando sono le stesse si è trovato utile dire della violenza che è gratuita quando non è a pagamento, ovvero la che si esercita nell’esercizio per diletto delle armi o dunque nell’ambito di un disegno criminale del tipo, ti pago e ripago – col regno dei cieli per esempio – se ammazzi devasti e distruggi. A dispetto di altri più o meno opportuni attributi – non si dimentichi il ruolo esornativo dell’aggettivo, lo stesso che di un edificio nasconde struttura e scheletro a vantaggio dell’abbellimento – a dispetto di quelli dunque, gratuito è la decorazione che, nel giornalismo per esempio, si suppone atta a suscitare il massimo dello sdegno o del godimento nel lettore di questa o quella cronaca scellerata. Di preciso come nel film Ghostbusters gli acchiappa-fantasmi ne catapultavano e serravano impavidi dentro le loro amabili scatole protoniche o cos’erano, la ragione da sempre ama cercare la trappola anti fantasmi del mondo, ma non sa dove imprigionarli se non in sé stessa ; la domanda è se la gratuità dettata dall’assenza di motivazione, di moventi, di ratio intesa anche proprio come limite, non plus ultra, sia ciò che si intende per orrore. Ebbene, se il misfatto motivato da una considerazione di guadagno sonante, personale e/o collettivo, si giustifica del tutto o in parte agli occhi della generalità sotto specie di necessità – lo ha fatto perché ha fame, sete, perché perché perché non c’è due senza tre – l’atto cosiddetto gratuito si situa non all’inferno, non al purgatorio ma in un limbo – sic sic sigh – nel limbo dei gesti, degli atti senza terra sotto i piedi come di chi non appartiene a una religione rivelata : fonte di battesimo ogni religione ha il suo limbo in corrispondenza delle diverse interpretazioni concesse all’atto gratuito. Non ha alcuna utilità ai fini del racconto tutto quanto detto o se ne ha è per dire, in conclusione, che la Tiga, lassù dal suo osservatorio stava assistendo a un atto di violenza gratuito. Poiché tuttavia non lo sapeva o non era così pratica nell’arte del distinguo come lo sarebbe un cronista, si limitò a registrare le urla – sobbalzando ogni volta di paura – ad ogni freccia che l’avversa fortuna, infierendo, conficcava in quella sansebastiana della sua amata umana Tina. E poiché come tutti i gatti anche Tiga non poteva non prendere partito, incerta sul da farsi e, lo si creda, orripilata dai fatti, non sapeva che pesci pigliare. Cioè in che modo e dove piantare i suoi artigli nel bipede. Non è utile insistere sulla fine della lotta senza lotta cui fu costretta la Tina. Dopo il primo abuso ce ne furono altri, non si sa quanto dirli più o meno convenzionali. Sottoposto all’insistenza improvvisata di un grosso batticarne di legno – non è una metafora ma un fatto, un oggetto afferrato con furia in cucina – il corpo della dottoressa Tina si stava trasformando in polpa mista da ragù. Quale forza naturale insistesse a farla respirare quel tanto da tenerla ancora in vita, non è chiaro. Finché sul carnefice, ecco una bella parola uscita sempre dal carniere della cronaca quotidiana, piombò improvvisa la Tiga ; le unghie spiegate per un abbordaggio malese si conficcarono precise nella testa di lui. Colto da quell’assalto l’uomo riuscì però a strapparsi di dosso la Tiga e così si fece più male da sé ma, accecato – ecco un’altra bella parole da cronaca – accecato dalla propria furia residua scagliò la gatta a casaccio contro un muro. La Tiga ricadde illesa e furente ma, consapevole che la posizione in basso la sfavoriva, tentò un balzo diversivo quanto inutile e poi molto più rapida di un fulmine e del bipede si dileguò. Nel naso e sulle zampe le impronte indelebili di odore e sangue dell’uomo. Stanco e forse svuotato dai fluidi vitali, sanguinante da un occhio cioè, al rivedere tuttavia inerte sul pavimento la propria vittima, decise per un finale calcio al torace. Fosse stata lì e non in nascondiglio sicuro, la Tiga avrebbe potuto sentire dal corpo della sua amata umana uscire un sibilo che tutti chiamano l’ultimo respiro. L’infame sorrise e se ne andò per la porta com’era arrivato.

Qualche tempo dopo al suono potente delle loro sirene arrivarono gli umani in blu, anche una donna per la verità ma vestita soltanto di scuro ; quasi subito dopo altri umani, in bianco, spennellarono, spolverarono, aspirarono, fecero brillare le macchine fotografiche, si avvicendarono sul resto della signorina Tina che, infine, altri umani deposero dentro una cassa lucida, lavata, odore di disinfettante, di acciaio. La Tiga, via dal suo rifugio, per la precisione il balcone ricco di piante dell’appartamento, balcone da dove all’occorrenza avrebbe potuto lanciarsi senza difficoltà oltre il parapetto su quello della dimora di fianco, vide tutto questo scivolando tra le gambe di tutti. La donna – di polizia s’è capito – la prese senza difficoltà in collo e coccolandola amabilmente le disse qualcosa come, Se tu potessi parlare gattina ci diresti vero chi è stato. La Tiga lo sapeva benissimo chi era stato, il suo odore, l’odore dell’assassino erano nome e cognome che le levitavano nella memoria. Ma dire, mettere in parola per un gatto costituisce una difficoltà insuperabile. Così si limitò a strofinare il muso sulla spalla della poliziotta cercando così di farle intendere che ormai doveva considerarsi la nuova eletta. I gatti non dimenticano ma rapidi eleggono. Il corpo profumato di detersivo di quell’umana fece convinta la Tiga del futuro, di una nuova casa. Fin dalla sera di quel giorno funesto la gatta si trovò a suo agio su un nuovo divano, nuovi cuscini, nuove copertine in cui involtolarsi. La donna prese a prodigarle ogni tipo di attenzioni ; per non sapere come chiamarla la chiamò, Gatta, tout simplement ; sicché Gatta sciorinò tutto il repertorio ammaliatore dei gatti : fusa portentose, voci incantevoli, occhiate ammaliatrici e altri segnali intesi dalla donna per rendimento di grazie.

Accadde per caso quando ormai da un bel po’ di tempo la Gatta abitava con quella sua nuova umana. Accadde che, in un pomeriggio umido, mentre era sola in casa a osservare dal davanzale di una finestra il passaggio là sotto sul marciapiedi di molteplici umani e l’avvicendarsi di innumerevoli volatili tra le fronde degli olmi belli che ornavano la via in tutta la sua lunghezza, tutti i sensi profondi della Tiga ne afferrassero la presenza, e il suo naso l’odore, l’odore dell’assassino. Come fu non si può dire. Ma fu. La Gatta poco dopo quell’avvistamento era scomparsa. La poliziotta, al ritornare a casa ne fu affranta, passò giorni di, proprio di dolore, di sensi di colpa per non avere fatto chissà cosa – il senso di colpa è proprio agli innocenti – finché in una sera di pioggia sentì raspare alla porta e miagolare. Piuttosto bagnata però, Ehi Gatta, era tornata. Grandi le feste. Accantonato in un faldone della sua memoria l’odore dell’assassino, ah che bello per Gatta pisolare alla televisione. Il telegiornale : uomini che si sparavano, persone che piangevano, musi lunghi, voci, rumori, stracci colorati agitati al vento, tutto quello che gli umani riuscivano a far entrare per una loro magia dentro quello specchio nero – incomprensibile come – e infine la notizia che un uomo era stato travolto da un camion su una certa strada di forte traffico. Una donna intervistata diceva, Ho visto un gatto saltargli addosso… non ho capito da dove arrivava … poi… tutto è successo in un secondo… l’uomo ha urlato… sì sì ha urlato… è caduto dal marciapiede proprio mentre passava quel camion… sotto le ruote dritto. La giustizia amministrata da una gatta. La donna della polizia sussultò.

L’immagine di apertura è di Nigel van Wieck – Coat-check girl

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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