L’ElzeMìro – Finzioni suppletive

1. La fortezza di Fensterle

Addì 6 novembre 1726 fu consegnata all’eccellenza il conte Átila Pons zu Siebzigdorf la chiave di Fensterle, alta fortezza; las, llaves, per dirla tutta, ché d’un alcàzar l’ognuno s’imagini porte e serrature a schiòvere. Costruita sulle geometrie che dal Michelangelo vanno al Vauban ma in parziale contravvenzione ai dettati strategici del Montecùccoli, la roccaforte isolata non s’ergeva in quota, ché cime deserte anzi la serravano, ma a occupare tutta la lunghezza da levante a occaso d’un altopiano érto e corto, confine tra certi e incerti potentati. Giù giù giù oltre una dominante foresta la città fortificata di B*, d’eccessi ricca, d’armati pronti a orgogliose sicurezze0 e da quel giorno novembrino artiglieri quotidiani e ricambiati di bombarde, barabroumbroumbroùm, urla, zampilli e schegge e perlopiù larici abbattuti. Casomai fosse salito a quella valle, conveniente più al capriccio che al vedutismo, sa di che si blatera l’ognuno, avrebbe infastidito al viaggiatore di gran tour la vista immane dei ghiacciai la fortezza, co’ suoi glacis, scarpe, dritti rivellini sui dislivelli di un terreno che là dove le mura terminavano diventava muraglia di roccia da cui solo le capre guardavano perplesse, tenendosi alla larga da quell’opera importuna, fumante dai camini, in perenne agitazione di moschettieri bianchi e turchini, grandi tiratori all’improvviso, così per fame di carni da squartare in attesa della guerra che rumori, ordini e smentite dicevano prossima o ventura o scongiurata.

Fosse stata condotta da scimmie ardite, volanti, montanare, o di velivoli la cui sperimentazione, 1782, fluttuava nei sogni dei fratelli Mongolfier….ma  appresso due secoli soltanto mostrò di che lacrime grondi e di che sanguea la battaglia tra le creste, di quale tenace imbecillità. L’ognuno rifletta se la vita dei più tra noi umani sia come la dei virus superflua e devastante, finché di terra ospite, sconcio Verdun ne resti. Ode alla troiesca vanità, o troiaggine, ribollita di buglioli, la fortezza di Fensterle, scomparve in meno d’una notte. Se furon Caso o Necessità a intervenire, o se l’Atena o l’Afrodite che le capre e Omero sanno e i mortali no, eh non si sa. Fredde le stelle come d’uso, le vedette a’ loro posti barbellando sospiravano una canzone, quand’uno prima, poi l’altro, un altro e un altro, diecimila piovvero dall’alto massi vaganti, prese la roccia a scuotersi, a mugghiare; precipitò, s’aprì, si chiuseb la montagna. Rifatta pietra la fortezza giace. Lì amano le vipere. Niente skilift nessun sciatore. Sembra sorridano le capre.

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0….I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza. firmato Diaz 4 novembre 1918

a vedi in Ugo Foscolo De’Sepolcri, v.157 (1807)

b vedi Pascoli, Il lampo in Myricae (1905) 

BA 10

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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