L’ElzeMìro – Favolette brechtiane-Il paese dei Pieritto

The Settlement, 2016 by Peter Martensen

                                                                                                   Peter Martensen – The Settlement, 2016

C’era una volta (e due e tre) lontano lontano, più lontano ovviamente dell’Impero celeste, che era bigio per ora e dell’india misteriosa che ancora lo era, e un po’ à côté di entrambi, nascosta tra mari, due, ande indie e cielo piovoso e foreste,  la terra dei guerrieri pieritto.

Nonostante ognuno di loro portasse appeso sul davanti – anche le femmine pieritto – un simulacro, direbbero i… e vabbè direbbero che il coltello penzoloni appeso per ritto tra le gambe stava, il simulacro, a simulare l’appendice fallàce non sempre dissimulata dai maschi, la che le femmine nascondono, direbbero, tra le labbra, quelle che  non servono loro a parlare ma che lo stesso sanno dire molto; nonostante ciò, e benché per vantarsi si proclamassero nobili (boh) guerrieri, nessuno tra i pieritto a loro memoria, mai aveva usato il coltello per altro che non fosse levare le croste al formaggio, tagliare i rami secchi alle piante e il pane per la mensa. Coltelli più piccoli è vero e affilati servivano a compiere spericolate operazioni chirurgiche di cui i pieritto andavano fieri, tipo tagliarsi le unghie, ma per il resto l’uso del coltello in quanto baionetta era loro sconosciuto. Peraltro l’oggetto di quel culto innocente era piovuto loro dal cielo di un altro popolo lontano, di superiore cultura ma ormai scomparso dalla faccia e dalle profondità della terra – leggende tradotte a voce in merito –.

La gente pieritto aveva una geometria strana per il giorno d’oggi, procedevano per rette e angoli retti, tutti camminavano benissimo e allegri e così svelti che chiunque, per esempio un portatore di riksciò cinese, melanese o milanese, avrebbero avuto le loro gatte da pelare a stargli dietro. Il pieritto grazie ai suoi piedi pieritto prendeva strade cioè decisioni inaspettate, nel tempo che oggi a un ufficiale non basterebbe a dire, Fuoco, il piede del pieritto non esitava, zang a destra, zing a sinistra, zung zung a diritto e via che andava dove il piede voleva. Il pieritto andava. Anche quando sbagliava lo faceva alla grande; la foresta per esempio era tagliata da strade che non si voltavano mai indietro a guardare, procedevano alla pieritto. Il mare, il gran fiume della sua terra al pieritto non interessava nemmeno per pescare e nessuno ci andava in ferie. Caratteristica  era la loro piccola scatola cranica, una piccolissima scatolina quella dei pieritto che nessun nemico avrebbe cercato per restringerla e farne trofeo, tuttavia abbastanza grande da farci stare un cervello, casomai tuttavai. I pieritto però uno ne avevano di grandezza infinìtima, quello di una mosca per capirci, che comandava loro i cuori e i polmoni, cose così. Al resto, dalla lista della spesa all’alta geometria delle stelle pensavano i piedi. Pensavano, coi piedi, i pieritto. Che andassero per funghi nella foresta o facessero di conto, erano tarsi, metatarsi e falangi – intese dita – dei pieritto che lavoravano all’uopo ( al bisogno). E alla perfezione.

Come fu come non fu, avvenne che un giorno un pieritto, un giovanotto rimasto ignoto benché inteso milite, si accorse di avere un gran mal di testa. Andò subito dal medichesso, cioè una settimana dopo. E costui, che aveva molti tipi di occhi, anche nascosti del tutto e invisibili a occhio nudo, fu subito atterrito dalla mostruosità che stava nascendo nella testa del suo connazionale – oggi si direbbe omogeneo alla cultura dominante –. Osservata con un magico occhio, all’interno di quel cranio innocente di giovanotto, dall’originario volume biancastro che giusto gli serviva per respirare, si stava proiettando, gonfiando, espandendo, sbrodolando una massa grigia palpitante e sospetta. Il medichesso pieritto non aveva parole per descriverla – ma il dubbio per noi moderni indubitabile è che si trattava di un cervello e nemmeno tanto embrionale – e all’idea di vederlo debordare dalle orecchie, sputare gli occhi fuori dalle orbite e strisciare flemmatico sui marciapiedi dove, pensò il medichesso, figurati che scivolate pieritte, che capitomboli a inciampare, scarligare su quel blob (cervello) in fuga, si mise in allarme e decise di spiegare al paziente che quella massa in ascesa nella sua testa, di giovanotto allegro che fino a quel giorno non avrebbe mai pensato altrimenti che coi piedi, due e bellissimi e affusolati, e così ben funzionanti, era una specie di sputo, un catarro, una lumaca gigante, un rospo che gli avrebbe ohi ohi, gracidato nella sua testa, magari per sempre, e facendo poi che cosa, vallo a sapere. Il giovanotto si preoccupò anche lui e tornò a casa spaventato – a piedi of course ( cioè di corsa) – in preda a mille pedìssequi pensieri. Il medichesso intanto allertò un confratello, e questo un altro e via di seguito, tutti i medichessi del paese si consultarono, si interrogarono, si biasimarono a vicenda sotto e sopra il banco. Fino a quell’ora l’unico caso di quello strana crescita di una massa così prepotente nella testa di qualcuno era quello riscontrato nel giovanotto, Maaa, si chiesero, se quella crescita paradossale fosse un’alga, di quelle che di colpo proliferano in mare grazie a, grazie a qualcosa… si cercò un colpevole, quel che avrebbe provocato quella crescenza cavernosa nella testa del giovane pieritto ma non fu trovata traccia di colpevoli oscuri. Nulla se non un’opposizione maligna di stelle avrebbe potuto causare il fenomeno; benché tutto nel giovanotto, i suoi piedoni, i suoi ferormoni, i suoi paroloni, fosse chiaro e ortodosso, quella cosa gli stava occupando sottovoce, andante allegretto la testa. Exèresi, ordinàro i medichessi, Exèresi autorizzò la casa dei saggi pieritto – anche i pieritto avevano una burocrazia – .  Non sappiamo se dissero proprio exèresi, il greco non era stato ancora inventato, ma in sintesi si ordinò di tagliar corto e tagliare quel cervello di troppo.

Spaurito il giovanotto scappò nella foresta e per un curioso accidente invece di prendere a dritto come d’abitudine, gli sembrò che qualcuno per lui pensasse, sussurrasse, boffonchiasse, Vai di qua, vai di là, nasconditi, guarda, osserva, una grotta, non far fuoco potrebbero vederti. La popolazione venne messa in allerta e cominciò la più gigantesca caccia al pieritto che la storia ricordi. Cioè la storia non se la ricorda affatto, ché i pieritto non avevano letteratura altra, che noi si conosca beninteso o che sia stata ritrovata, altra dai consuntivi condominiali scritti, coi piedi, su fogli di corteccia che accumulavano nelle loro grandi biblioteche, milioni di migliaia, a giudicare dai ritrovamenti carbonizzati – si dirà si dirà –, miria milioni di consuntivi la cui parte non dedicata alle cifre purtroppo non è stata sufficiente nei millenni a stabilire una traduzione men che approssimativa della lingua pieritta. Di certo si sa meno di poco, mancando una stele comparativa, una rosetta che in greco sciogliesse l’enigma, come per la lingua dei faraoni, che poi avrebbe potuto essere quella dei loro schiavi o quantomeno delle guardie che li frustavano mentre i meschini trascinavano pietroni immensi a costruire quella superstiziosa assurdità turistica che sono le piramidi. – Ma se non sia appunto il turismo l’assurdità che distingue la cosiddetta civiltà ancora oggi sarebbe la domanda opportuna –. 

Avvenne dunque così che il ragazzo cui cresceva il cervello nella testa, scoprì il vero uso dello strumento – eredità, s’è detto, di un’antica civiltà superiore blà blà –. Ma il ragazzo dal cervello in crescita si disse, perché mai portare un coltello per mostrarlo, si disse il giovane pieritto, Io non lo porto, non lo mostro, io lo uso il coltello. Il ragazzo cominciò così la scoperta di quanto fosse funzionale il coltello, dapprima trapassando tigri e cinghiali poi in breve passò ai primi omicidi, poi ai secondi poi ai terzi – il giovanotto prese a gustare il rumore fatto dall’aria che usciva dal sacco animale che muore –. Il medichesso pieritto, nella speranza di salvare la patria  anche alle brutte per escissione totale del cranio, cercò in tutti i modi, a cavallo per esempio, di raggiungere il ragazzo per espiantargli quella mostruosità che alimentava in testa o che si alimentava in lui della sua testa. Ma troppo tardi. Ormai era guerra dichiarata. I pieritto, soggiogati dal giovanotto al fascino del coltello, avevano preso a disperdersi in squadre, segnalate ognuna da variopinti piumaggi. E ogni squadra era nemica all’altra, senza cattiveria, ci si pugnalava per gioco, era troppo allegro e sbarazzino ai sensibili orecchi pieritto, che avevano l’amusement e il ritmo nel sangue, lo husssssh  che usciva dalle bocche del fiato. E del sangue. Che cominciò a scorrere a fiumàre per le strade, sotto i ponti, nei campi, nei ruscelli mescolato all’acqua, nel gran fiume, sui prati, nelle case, dove una stessa famiglia pieritta poteva essere divisa, ogni elemento in una squadra diversa, così ch’era tutto un pugnalarsi a vicenda. In breve non rimase che qualche pieritto ritto in piedi. 

Popolazione di scarsa natalità per fortuna, i pieritto prima si sparsero ai sette angoli della terra, ignorando la rotondità di quest’ultima, e lì negli angoli, una coltellata alla volta si estinsero. Si dice però che alcune delle specie popolose di oggi sulla terra siano le eredi dei pieritto originali. Queste notizie squinternate ci sono narrate da Strattóne Sofìsforo di Syracuse che le scrisse traducendo alla meno peggio dagli scarsi documenti ritrovati che non fossero consuntivi, e alla meglio dalle notizie tramandate dai mercanti di ogni lingua e paese che attraversandoli tutti, da tutti ascoltavano fino a farsene un’idea, confusa ma tale, dei fatti. È così che andò. Poi nel paese dei pieritto scoppiò un vulcano, il vulcano pieritto ( mt. 5579) oggi sepolto sotto la cenere e la sabbia di sé stesso, e ciò che era vivo e ritto ancora morì, e ciò che morì, seppellito incenerì.

 

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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