Autore: Salvador Elizondo
Data di pubbl.: 2018
Casa Editrice: LiberAria
Genere: letteratura contemporanea
Traduttore: Giulia Zavagna
Pagine: 138
Prezzo: € 16,00
Farabeuf o la cronaca di un istante è un libro sconsigliato a tutti coloro che, di un romanzo, amano e cercano lo sviluppo lineare della trama. Salvador Elizondo, scrittore messicano elogiato da Octavio Paz e deceduto nel 2006, in questa opera risalente a metà anni Sessanta condensa lo sperimentalismo novecentesco di James Joyce, il vitalismo trasgressivo di Georges Bataille e la lezione letteraria del nouveau roman. Evidenti sono le assonanze con la scrittura di Alain Robbe-Grillet e di Michel Butor, per citare due tra i principali esponenti del Nuovo romanzo francese. Nemica degli psicologismi, ostile alla chiarezza cronologica, avulsa dalla cura tradizionale dell’intreccio, la corrente fu battezzata dai critici con il nome alternativo di École du regard, per la fiducia riposta nello sguardo: un occhio puro, meccanico, fluttuante è chiamato a tessere, nel suo movimento oscillante tra differenti faglie temporali, in spazi perimetrati e recintati dalla pre-potenza di logiche nascoste, una grammatica dei fatti. Il quadro è disponibile alle interpretazioni dei lettori, invitati a comporre, in un mosaico di probabilità, il materiale rapsodico. Con frequenza ossessiva emergono costellazioni di oggetti, prioritario è il dato, mentre una ricorrenza, simbolica o linguistica, pressa gli eventi (in Farabeuf è la domanda: “Ricordi?”). Il controromanzo nouveau si struttura in moduli di senso e non-senso, cede all’accumulo, alle sovrapposizioni, alle ripetizioni, si sfalda in rammemorazioni elusive, si affida alla presa fenomenologica di una coscienza inserita in un tempo labirintico da cui è incapace di uscire.
Farabeuf è un medico vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento. Il 29 gennaio del 1901, a Pechino, assiste all’uccisione di un uomo, l’assassino di un principe locale, catturato e messo a morte. La tecnica di esecuzione, denominata Leng-tch’e, è di un’efferatezza estrema. Trattasi di smembramento del corpo, vivo, del colpevole, preventivamente legato ad un palo, in pubblica piazza. “È curioso vedere quanto è resistente la carne del nostro corpo; è necessario constatare con quale sforzo il Dignitario mette allo scoperto le costole dell’uomo, per comprendere esattamente la capacità e la resistenza della carne. La vittima non grida mai. Forse i sensi si fanno sordi a tanto dolore”. È l’epoca delle rivolte nazionaliste dei Boxer. Farabeuf immortala il supplizio in una foto. Apprendiamo che è una spia in missione segreta. Con lui, c’è un’assistente, una donna, un’infermiera, anch’essa inviata in Cina sotto mentite spoglie (è una suora?).
Questo grumo narrativo potrebbe dipanarsi in una storia più ampia, classica nei contenuti, piana e razionale nello svolgimento. Potrebbe. Farabeuf è invece la cronaca di un istante. O, meglio, di diversi istanti che diventano uno solo. Come? Pensiamo, per analogia, a più diapositive o a negativi estratti dalla pellicola di un film, sovrapposti e con-fusi in un unico mazzo, un insieme di immagini coincidenti, fino ad ottenere uno dai molti. Volti, corpi, stanze, esterni e interni non si distinguono più, ogni particolare sfuma in un altro. Due persone innamorate, si suppone giovani, entrano in scena. Ma quando, in che epoca, e dove? Che rapporto c’è tra loro e Farabeuf? Quanto accaduto in Cina si riverbera sulle loro esistenze? E in che modo?
“E quello specchio enorme? Ci fu un momento in cui rifletté la loro immagine. Si presero per mano e durante una frazione di secondo sembrò che stessero passeggiando in riva al mare, senza guardarsi per non incrociare i propri sguardi, per non vedersi riflessi in quella stessa superficie macchiata e torbida che rifletteva anche, sfocato, il mio profilo come un neo bianchiccio, immobile in fondo a quel corridoio buio dove Farabeuf sarebbe passato solo qualche istante dopo, con le mani sollevate, avvolte in dei guanti di gomma, con addosso l’odore di un disinfettante indefinito che infondeva una vaga inquietudine e che ben presto avrebbe impregnato ogni cosa in quell’ambiente dalla luce smorta”.
Farabeuf equivale alla narrazione di un sogno, complesso, bizzarro, svanito all’alba, sul quale, appena svegli, ci interroghiamo affannati, per preservare i particolari dalla scomparsa. Presto ci accorgiamo, però, che gli elementi onirici dialogano in un linguaggio che non è il nostro. I meccanismi di comprensione superano gli schemi di ragionamento consueti. Eppure, proviamo a ricordare. Chi ha colpito, con il piede, il tavolino nella stanza? Alle pareti sono appesi quadri o specchi? A chi appartengono quelle immagini? Quando sono stati poggiati i giornali sul pavimento, e perché? La donna che ha raccolto al ritorno una stella marina è la stessa che ha percorso, all’andata, la spiaggia in compagnia dello stesso uomo? Chi sta salendo le scale, in un giorno di pioggia? Dove si trova la casa, a Parigi o è vicina al mare? L’infermiera in fondo al corridoio è l’assistente di Farabeuf o è la donna della seconda coppia? Quale delle due è costretta al sacrificio? Esiste davvero un’altra coppia o la seconda è solo un travestimento delirante della prima? Chi disegna sui vetri appannati? Per quale motivo il dottore allestisce uno spettacolo avvalendosi di una lanterna magica? Da quanti anni sono stati deposti gli attrezzi del mestiere? Cosa sta per accadere, un atto carnale o un omicidio? O entrambe le cose simultaneamente? Se solo qualcuno, tu, potessi ricordare cosa accadde l’anno scorso, ‘a Marienbad’, o nel 1901 a Pechino, o poco fa, in questa stanza…
Farabeuf è un ‘sogno di prigioniero’ non separabile dalla realtà o un antiromanzo costruito su una diagnosi di schizofrenia. La casa editrice barese Liberaria ha svolto un ottimo lavoro, presentandoci una gemma letteraria, nella traduzione di Giulia Zavagna, corredata dall’opportuna introduzione di Alessandro Raveggi. L’opera di Elizondo è sensuale e irrisolta, meno concettuale ma, per fortuna, più coinvolgente, sul piano emotivo, del medio nouveau roman francofono. Farabeuf in alcuni passaggi, alimenta la querelle filosofica attorno ai temi dell’identità, della realtà, della memoria e della materia e sfiora le corde della distopia. “Avete fatto una domanda: ‘Siamo forse una menzogna?’, dite. Questa possibilità vi turba, ma è importante che vi rassegniate ad appartenere a una qualsiasi delle parti di uno schema irrealizzato. Potreste essere, per esempio, i personaggi di un percorso letterario di genere fantastico che d’improvviso hanno preso vita autonoma. Potremmo, d’altra parte, essere l’insieme dei sogni sognati da individui differenti in diversi luoghi del mondo. Siamo il sogno di un altro. Perché no? O una menzogna”. Potrebbero essere parole di un folle, di un romantico o… di un androide che prende coscienza di sé.
L’infermiera (o un’altra donna?), ogni pomeriggio, in un istante che è sempre, si impegna nel consultare l’antica sapienza oracolare I-Ching. Oppure, è indaffarata attorno ad uno strumento esoterico, la tavola ouija evocatrice di spettri. Lo spettro più sfuggente è il tempo. “Ogni nostalgia è un superamento del presente. Anche sotto la forma del rimpianto, essa assume un carattere dinamico: si vuole forzare il passato, agire retroattivamente, protestare contro l’irreversibile. La vita non acquista contenuto se non nella violazione del tempo. L’ossessione dell’altrove è l’impossibilità dell’istante; e questa impossibilità è la nostalgia stessa”. La citazione di Emil Cioran, estrapolata da Sommario di decomposizione, è posta da Salvador Elizondo in epigrafe. Vita e letteratura convergono verso un unico orizzonte di nostalgia, la cioraniana impossibilità dell’istante. La mania per la connessione permanente è solo l’ultima manifestazione di tale radicale insofferenza verso il presente, una proiezione di sé nel gorgo digitale della sincronicità infinita.
Farabeuf, stai per aprire quella porta. Cosa c’è dietro? Ti ricordi?