L’ElzeMìro – Favolette brechtiane_Il re contadino

 Paula Rego War

 

Sapete come si dice qui da qualche parte che,
Chi  non ha fame piange
ma a quattro mani munge
 chi ha per sé  si accapiglia
e a quattro mani piglia,
proverbio o ritornello, seguidilla o sentito dire che però fa il caso della storiella di oggi. Dunque.

C’era una volta, una di sicuro e altre ancora tutte da vedere ci sono… c’era una volta, il modesto regno di Sangriglia, la cui unica ricchezza era il carattere mite e la dedizione generale all’agricoltura dei suoi abitanti insieme con l’indifferenza ai viaggi e alle avventure, ad espandersi se non come si deve chiedendo il permesso e pagando il prezzo pattuito e all’invidiare il bene degli altri paesi intorno. La terra era tutto quello che interessava agli abitanti di Sangriglia, per la più parte appunto agricoltori. La terra era fertile e sembrava ci mettesse del gusto personale a far fiorire messi ricche e di aspetto gentile, vigne simili a tante donne incinte tanto erano in agosto cariche e gonfie di bei grappoli. Le mani che coltivavano erano volenterose e competenti e si dannavano tutto l’anno per far fruttare al massimo i terreni: e c’erano quelli da frutta e da cereali e orti copiosi e maggesi mezzi e interi e, per l’ appunto, le vigne. Il lavoro dei campi, quello che in definitiva sfama da sempre chiunque, oziosi,  prepotenti e gangsters oltre che professori e poeti, elettricisti, asfaltatori e tutti quanti che senza i contadini sarebbero morti ; di cul-di-pietra o stipsi o di gotta al mangiare solo carne e insaccati. Per quanto fosse oggi come allora il lavoro più faticoso che si possa dire, quello dell’agricoltore o coldiretto, era a Sangriglia il mestiere peraltro più rispettato e stimato e ricercato: più di quello di sindaco e dirigente di aziende, peraltro a Sangriglia quasi tutte agricole. Il contadino era ascoltato in assemblea, onorato se il suo raccolto era copioso, aiutato con mille misure di conforto , quando quello non lo fosse stato ; se fosse scoppiata una grandine o se la mosca avesse attaccato gli ulivi, subito il re scatenava un esercito di biologi per studiare l’evento e porvi rimedio. L’agricoltura era nelle menti e nei cervelli di ognuno, anche perché, ripetiamolo, tutti sapevano che i cervelli pensano grazie all’agricoltura. Al tempo i rimedi erano faticati ; Galilei, Bayer e Spinoza erano di là da venire e benché si conoscesse il vetro, le lenti e la meccanica della visione, detta ottica, erano piuttosto embrionali sicché di guardare dentro le cose, sì si poteva fare ma a occhio nudo e fin dove quest’ultimo fosse arrivato. La scienza, pure coltivata, procedeva navigando a vista, si può dire, il che vuol dire che procedeva per tentativi, il che vuol dire talvolta anche a tentoni. Lo Stato, cioè il Re che lo rappresentava, era chiamato e amava farsi chiamare primo tra pari contadini, grandi mezzadri  erano i suoi ministri e volenterosi braccianti gli uomini che, non sapendo seminare un pomodoro, si compiacevano almeno di coltivare in assemblea di stato la politica come si fa con un giardino, annaffiandola di attenzioni e di corretti propositi. Insomma non fosse esistito un siffatto regno sarebbe stato bene inventarlo o copiarne le grandi linee.

I re, che nei secoli si erano guadagnati il titolo di cui si vantavano, primo contadino scritto maiuscolo e in grande per farvi intendere, erano tenuti a svegliarsi all’alba per legge – mica facile anche se… – , mangiare una colazione robusta ma essenziale di pane formaggio e olive, passare mezza giornata a badare a questo o quel terreno per esserne al corrente, desinare nei campi sotto un albero con ministri e contadini e infine, nel pomeriggio soltanto, occuparsi di tutte le diecimila questioni di uno stato. (Di mettersi un elmetto come fanno oggi i presidenti per sembrare carpentieri sui cantieri, ai re non sarebbe mai passato dal cervello, nemmeno per la sua anticamera, come si usava dire). E a buio, dopo cena a nanna, magari con un libro o dopo un’oretta passata ad ascoltare le  storie contate dalle grandi cantatrici di palazzo e ritmate da tamburello, nacchere, chitarre e, in non poche occasioni, ballo. Altri svaghi non arrivavano in casa perché non ce n’erano e il teatro, che era conosciuto invece e seguito, si faceva in occasioni fisse, in corrispondenza della vendemmia, o del raccolto delle mele. Qualche volta nei paesi, di rado nella capitale, capitavano anche i cavalcamontagne, attori senza fissa dimora, a recitare comiche scintillanti o tragedie nere.

A molte terre e regni di distanza da Sangriglia regnava su un impero per quei tempi immenso una generazione di tiranni. I tiranni di Sarabanda, questo il nome dell’impero. Tiranni erano nati i loro nonni e bisnonni, né mai avevano conosciuto altra forma di esercizio di quella che oggi chiamiamo politica se non la tirannide, tinta con metodo del sangue proprio e più diffusamente altrui. Non solo i tiranni non si facevano specie al decidere la morte di un avversario – che del resto avrebbe o aveva avuto l’intenzione di fare lo stesso con loro –  ma succedeva che venissero deposti o eliminati in congiure di palazzo che, in genere, senza eccezioni, avevano nel tempo dato luogo a tirannidi peggiori della precedente, pessime, per dire così. I tiranni sapevano che per mantenersi al potere occorreva tenere in esercizio gli eserciti così che non gli si voltassero contro ; per tanto la guerra all’altrui era la forma non solo di svago, di divertimento, ma di occupazione quotidiana. Un mestiere. L’ impero era costituito da una casta di combattenti, tutti maschi, tutti carnivori efferati; le donne non esistevano, cioè sì ma, pensate che cosa piccoli lettori, tutte in un ruolo che dire subalterno sarebbe da ridere tanto poco erano considerate umane se non come fabbricanti di guerrieri ed in genere, tranne quelle che nascevano per errore in un mondo siffatto, in genere si trattava di femmine rapite per diletto e per il letto, sottratte alle case di altri popoli,  di altri territori, di quei paesi grandi o piccini dei quali il tiranno in carica decidesse di impadronirsi per avere più spazio vitale, era il detto.

A Sarabanda nessuno lavorava veramente tranne l’enorme numero di soldati che di fatto occupavano il loro stesso paese. L’economia era soltanto un’economia di consumo, di rapina, di devastazione al fine di garantirsi i beni necessari alla vita, il cibo per prima cosa. I soldati, l’esercito razziavano vecchi e nuovi territori, sottoposti i primi, da sottoporre i secondi alla propria dura legge, produrre per mantenere in vita l’impero, prostrarsi per farlo sfogare. In questo senso nulla bastava mai. Così si fabbricavano, cioè v’erano operai, di preciso come negli alveari, che fabbricavano macchine enormi e nere e megère, di ogni tipo, carri con furiose ruote dentate per mordere la terra, magli alti tre piani per battere i metalli e forni mostruosi per fonderli – in onore al dio che fa fiorire il ferro, canta il poeta – e formidabili quanto misteriosi edifici con centomila finestre e ripieni di funzionari che organizzavano e gestivano preventivamente ogni produzione e la produzione di ogni rapina, anche di opere d’arte fosse il caso, ogni devastazione, ogni stupro. Enormi silos sotterranei servivano a conservare ed amministrare il maltolto, fossero cibo, beni o manufatti.

Fu così che un bel giorno e senza tanto pensarci su ma con ben chiaro in testa che cosa si voleva, il tiranno allora in carica, tale Semarativielodama II (il primo era stato assassinato dagli uomini della sua guardia personale) le cui gesta sanguinarie ci furono tramandate da un’opera di Händel e perduta sul nascere, Sarabanda, informato della stato prosperoso di Sangriglia, decise che avrebbe fatto di tutto per appropriarsene. Si trattava di calpestare sette diversi regni per arrivarci ma… poca cosa, roba di qualche giorno. Gli bastò un niente, una parola ai suoi advisors e un’altra ai suoi mille generali e qualche ora dopo un esercito di ferro e ruote era già in marcia verso i confini, e li avrebbe valicati triturando come d’uso ogni cosa al suo passaggio ed appropriandosi del non triturato.

Dopo giorni e giorni di violenza efferata, – no non è da stupirsi oh piccoli lettori – l’esercito finalmente arrivò in vista di Sangriglia, spese del tempo per stringersi in cerchio intorno ai suoi confini in un lungo cordone di uomini e mezzi disposti a intrattenersi in assedio, quindi si riposò: misero le tende i soldati affaticati dagli ammazzamenti, allestirono i loro barbecue, le loro latrine mobili, frustarono quel che basta i loro servi ché si spicciassero a provvederli di acqua calda per lavarsi, e mostrarono una volta di più alle loro donne al seguito le loro virilità. Così per qualche po’. Nel tempo in mezzo si organizzavano duelli, scontri ai pugni, al bastone, al coltello. E in tutto quel tempo nessuna merce uscì da Sangriglia, nessuna entrò a Sangriglia. Confini chiusi da un brulichio di militi. Per capirci Sangriglia a sud era limitata dal mare, un mare diverso da come sono disposti i mari adesso, stiamo parlando di millenni orsono, ma che più o meno possiamo immaginare simile al mar nero benché fosse un lago, un lago immenso che costituiva, segnava la separazione con il regno amico di Bardana  famoso per i suoi stupendi ciliegi. Nel lago transitavano di norma navi d’ogni tipo e tonnellaggio e che portavano i prodotti di Sangriglia a Bardana e viceversa o in altri siti. Ora con questo assedio, non solo Sarabanda aveva chiuso i confini terrestri di Sangriglia ma impediva il liberi commerci per nave: una formidabile armata di mille battelli, fatti arrivare per via di terra con macchine speciali, correva per dritto e per rovescio da una sponda all’altra del lago impedendo che dalla più piccola alla più grande tra le imbarcazioni sangrigliane nessuna potesse far vela incolume verso la propria destinazione ; le poche ardite che di notte tentarono di forzare il blocco furono avvistate, abbordate, spogliate di ogni bene ad affondate ; quanto agli equipaggi, bisognerebbe scrivere un capitolo solo per descrivere le torture, le angherie, le violazioni di ogni cortesia cui furono sottoposti. Il re di Bardana elevò presso la corte di Sarabanda una protesta formale per tutto questo che osteggiava anche la propria economia ; ottenne come risultato una risataccia di quelle e di altre : l’ambasciatore fu cacciato e riferì al proprio Re l’opinione che sarebbe stato meglio se Bardana si fosse affrettata alle armi.

Sangriglia non aveva né esercito né marina da guerra, né aveva mai pensato all’eventualità di munirsene ; Sarabanda era lontana assai dai propri confini e, s’è detto, tra sé e quelli di Sarabanda, diversi altri regni non ancora conquistati dai tiranni si interponevano. L’arrivo  di quel mostruoso esercito mise tutto il piccolo regno di agricoltori in tutti gli stati. Tutti compresa la paura. Era primavera, i campi crescevano a meraviglia e nessuno sapeva come si fa a combattere: soprattutto nessuno sapeva che cos’è un assedio e quali danni può provocare, quali perdite, quali disastri. Passarono i giorni e piano piano cominciarono  a scarseggiare le merci di importazione, spilli, filo da cucito, refe per le vele, carta velina per le copie carbone, carne in scatola, carne fresca (a Sangriglia non si macellava) ciliegie e datteri. Allo stesso tempo cominciando i raccolti le frutta presero a marcire nei magazzini perché , mangiate quelle che mangiavano a Sangriglia, il resto non si riusciva ad esportarlo e di lì a poco anche il grano, l’avena, la soia, una volta raccolti non c’era mezzo di farli arrivare come ogni stagione a Bardana. Lo stato non incassava e prese a non poter pagare alcuni tipi di stipendi. Quelli che non erano agricoltori tra i cittadini presero a preoccuparsi.

Come finì, piccoli lettori, dovreste saperlo. Annoiati dal lungo assedio i soldati di Sarabanda, decisero di tagliar corto e una bella mattina – si dice sempre così – all’aurora o poco prima mossero tutti insieme oltre i confini naturali di Sangriglia, un fiume largo, una catena di monti aprichi, una collana di lunghi laghi ex glaciali e ameni. La flotta rigurgitò armati a migliaia lungo le rive del lago grande. Le grida degli uomini erano così forti e così tante che per un attimo nella capitale di Sangriglia, al centro del paese sembrò che un enorme unico truòno stesse per detonare il cielo. La terra pare che si mise a tremare. E cominciò la strage. E Sangriglia sparì.

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L’immagine di testa è di Paula Rego – War

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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