Monsieur Quandmême era, in questo tempo sempre creditore del presente che è l’imperfetto, era dunque l’unico blek, black, del dondònminio e questo benché abitasse non all’ultimo ma al penultimo piano, piano come si sa favorito ancora un pochino dagli dèi, nonostante la minore vicinanza all’Olimpo. Si faceva notare MQ in quanto unica macchia di colore nella generale supremazia dello sfondo bianco, dall’avorio al bianco latte passando per il bianco titanio, zinco e bianco fantasma detto pure Morandini (il celebre designer). Doppiamente alieno, Quandmême si faceva notare inoltre per il suo cognome, dai condòmini tutti mutato in Qammèm, con una qu di Africa equatoriale, franca e abbonata ai suoi tuguri. Era Qammèm anche e soprattuto per l’amministrazione che ne aveva stabilito il cartellino conseguente e sulla bottoniera del citofono e sulle cassette postali nonché in testa agli avvisi di pagamento per le rate delle spese condominiali. In varie occasioni Quandmême aveva provato a illustrare in amministrazione la propria ortografia, ossia la giusta scrivitura – è l’ortografia la più infinita ombra del vero – ma senza risultati, il suono è il suono presso tutte le burocrazie e quanto al circonflesso di même, già la parola circonflesso tra gli impiegati sembrò se non un insulto un joke per dire circonfesso, disse la ragioniera capa al personale amministrativo di signorine inamidate da capo a piedi passando per lo di ognuna centro di gravidanza ; donna di ineguagliabili ed esportabili convinzioni la ragioniera capa: per esempio che il proprio vocabolario avesse valore biblico, atto a giuramenti, e che Quandmême fosse un mossiù, come un tiramisù. Ma non è questa la storia. Non è una storia di nomi, benché altrettanto breve da dire.
A Quandmême di essere stato nato fu chiaro fin dagli inizi. Il fatto di camminare in proprio, di respirare anche a riposo, di aver fame o sete e perciostésso di poter aprire un rubinetto per riempirsi un bicchier d’acqua con tutte le abilità che comporta, e infine quell’insistente tùmbtúmb-tùmbtúmb al proprio interno gli erano testimonianza necessaria e sufficiente del fatto che a un certo punto della sua carriera fosse stato deposto in un certo punto del presente ; che lui insomma come lui in quanto lui stesso rotolando fuori da un era a un sarà si era presentificato, avrebbe detto qualcuno per confezionare di difficoltà una cosa indispensabile alla presentificazione come l’essere scodellati da un utero alle mani di una volenterosa levatrice. Dunque Quandmême era stato proprio nato. Nessun dubbio sull’avvento, non di quelli che si possono dirimere con facilità, lì da vederlo mentre apriva la porta del proprio appartamento con una chiave elettronica – a dispetto di ogni coinquilino, lui sempre up-to-date Quandmême –. Ma dopo essere stato nato, ecco che fin dall’adolescenza, condizione per la quale non fu mai sicuro di essere presente se passato, a Quandmême fin da quell’età, si erano presentificati alcuni dubbi, era parso poco chiaro il seguito di quell’evento che a tutti gli effetti, tranne il proprio perdurare, pareva circoscritto e concluso in un anello di tempo senza scampo. Sono nato e adesso, aveva preso fin da subito a domandarsi mossiùqammèm, ancora prima di avere conquistato l’abilità che lo distinse e lo distingueva nel gioco dello Scarabeo, cioè prima che la parola gli si donasse.
È fuori di dubbio che la parola anche al plurale arriva dall’alto – da uno bïónte più alto di te – o almeno di lato se per caso ti parla dritto in una delle orecchie sussurrandoti paroline leggere. Per conseguenza le parole, la parola ti si rivela , la parola ti si incista, e non si può fare a meno di dire che si tratta di un dono, o di un vantaggio perlomeno. Ulteriore poi il dono di saperli usare questi mirabolanti giocattoli capaci di ogni intelligenza anche artificiosa. Quandmême era diventato con pazienza e anni un abile compositore di canzoni a ballo, distici elegiaci, frottole, idillî – circonflessi – madrigali di uso corrente, sonetti, strambotti, villotte, ed aveva anche trovato un suo modo ingegnoso e privato, e finora mai messo da alcun altro in opera, di tradurre i metri quantitativi di suoni lunghi e brevi degli antichi, uno almeno il pentametro dattilico, nell’armamentario ritmico nostrale. Leggere questi poems, nada, non li leggeva che qualche isolato estimatore e per quello era difficile che qualche editore gli si presentificasse, al Quandmême, allo scopo di pubblicarne l’opera – giunta, all’età dei fatti di oggi, al corpo di 3379 composizioni poetiche – sicché egli, bello come un belafonte nei suoi completi dal taglio curato, era per lo più il divo di sperduti readings paesani, di sporadiche sagre letterarie estive, di qualche premio prestigioso e proprio per questo sconosciuto. L’appartamento di Quandmême era punteggiato, per così dire, di targhe, pergamene, statuine in similoro, lettere di credito, affettuoso commiato, stima imperitura, apprezzamento. Sé stesso definiva Cacciatore di Tramonti Quandmême. Su questo si torna.
Da questo e dagli encomi, soldi per la fine mese ne ricavava pochi ; perciò Quandmême esercitava come tutti un mestiere, antico nello specifico, ereditato ed ottenuto studiando, lo speziale : inteso per l’appunto come farmacista e nella versione aggiornata di pusher. Conosceva tutti i segreti per la fabbricazione di macumbe adatte a molti tipi di surrogata sensazione e persino di sentimento, il successo delle quali era dovuto in grande misura al fatto che Quandmême aveva introdotto nelle ricette elementi di conoscenze avite, di madri e nonne e zie dedite in tutto o in parte a sapienti stregonerie con erbe mirabolanti, potentissime e sconosciute altrove se non in Africa e nei sillabari degli studiosi botanici. Sapeva, QM, impregnare i fazzoletti, anche quelli di carta, con profumi destinati a sprofondare chi ne avesse annusati nella condizione tra il cane e la lupa di un avvincente dongiovanni o di una pericolosa circe. Sapeva questo e quello. Tutto ciò gli aveva promesso prima e permesso poi l’ascesa al penultimo piano di quella scala celsius sociale che è un condominio dalle altitudini ormai note, se ti ricordi, e con ampia area verde e fiume vicinale e capolinea d’autobus per il centro ; e in definitiva il preventivo acquisto del suo appartamento e il fatto che nessuno tra i bianchi presenti nello stabile aveva il bel becco di non valutarlo per quel che era, uno che ce l’aveva fatta, che si era tirato su dal pianterreno, dalle piantagioni, che aveva avuto successo. L’origine del quale è sempre secondaria in quanto stratificazione magari di un infame trapassato remoto quando il rispettabile si presentifica. Il remoto è tanto lontano quanto nella mente dei filistei è motivo talvolta ma non sempre di rimprovero morale e di reclamato castigo. Di suo Quandmême peraltro non commetteva nessun reato maggiore di quello che si costituiva nel fatto di vendere al mondo ciò che il mondo, cioè il mercato – ché questo è il mondo… un suk esteso – che il mercato aveva scoperto di cercare e per lo scambio del quale il mondo/mercato era attrezzato : eccitazione, oblivione, estasi a più o meno caro prezzo ; non la quiete, la misura, l’equilibrio della sua sapienza poetica ma il marasma dello scambio velenoso di questa e quella tra le più inquiete ampolle o macinati fini. Poi come Enea, invece del porto placido di Didone, e forse con l’animo di Odisseo QM preferì il nonsense : della caccia al tramonto.
A sera, Quandmême silenziava il telefono, sedeva placido sul suo terrazzo rigoglioso di piante da non dirsi, comodo in una poltrona comodissima disperdeva il tempo osservando il tramonto, anche quando non fosse il sole presente in cielo a garantire il fatto che la terra gli voltasse le spalle come nel letto un’amante appagata. Quandmême guardava e guardava e basta ; non ascoltava musica ché del resto gli era impossibile : qualsiasi brano appena appena di buona fattura, gli provocava un pianto spesso irrefrenabile, lo stesso che provoca la nostalgia di qualcosa che si è perduto o desiderato o superato e non si sa che cos’è. La nostalgia dell’assente. Del tramonto. Vabbè. Quandmême stava lì accoccolato sulla sua poltrona e guardava il sole al declino e fare non faceva altro. A buio fatto sopraggiungevano i primi bzzzbzzz del telefono silenziato e, sullo sfaglio tra giorno e notte, come qualsiasi finanziere Quandmême ricominciava a guadagnare.
Poi un bel giorno Quandmême decise di andargli incontro, al tramonto. Si alzò presto una mattina, una bella mattina di prima estate di quelle in cui il calore riesce a essere per poco, finché non subentra la canicola, una piacevole novità del risveglio, una gorgogliante giàcùzzi di presente. Scrisse qualche riga sul quaderno che teneva sempre aperto sul suo tavolo di lavoro – Quandmême scriveva con rigore calligrafico solo sul carta vera e con una delle sue molteplici stilografiche… dalla più a buon mercato alla più cara – si preparò con cura lavandosi con ogni attenzione i più ardui recessi del proprio corpo, si vestì degli abiti più adatti a una lunga marcia e si calzò per una lunga camminata, preparò uno zaino oculato e, dopo una precisa colazione, indossò un cappello da esploratore, uscì di casa, lasciò che alle proprie spalle la porta si chiudesse e partì. Al tramonto, dopo una lunga marcia, si trovò su una collina al bivio tra due strade del cuore e il sole brillava del suo colore caratteristico arancione e a piombo su una cresta di colline là, più lontane ; sembrava al contrario vicino tanto da mancare poco a poterlo toccare (con tutte le precauzioni nel caso). Quandmême non sapeva per niente quale dei due rami del sentiero lì davanti portasse fino al tramonto o per lo meno nelle sue vicinanze. Però, dopo qualche istante di riposo su un grosso masso erratico infisso nel terreno, si rialzò, si allacciò di nuovo lo zaino dal quale si era liberato per riposare, depose il telefono accanto a sé sulla pietra – come a dire… Je suis quand même passé par là – e ripartì. E da quel momento – domanderai – ah non si sa ; non si sa se raggiunse il tramonto.
In apertura Nieces di Zoey Frank