L’ElzeMìro – Mille+infinito 

Mille + infinito

“Every second counts ” (The Bear – Christopher Storer,Fx,Disney+)

È una fotografia stampata su una carta pesante con il bordo seghettato e in un formato dimenticato ma grande e tirata per certo da un negativo di qualche marca e tipo tanto evocativi quanto estinti : se sia stata una Perutz Pergrano o un Agfa Isopan sono congetture. Il bianco e nero la situa comunque in un epoca centenaria, precedente l’avvento ma soprattutto la diffusione del colore ; non è lucida e non è opaca, ma brilla e riluce di un’ombra paglierina ; un’ombra dovuta all’originale processo di stampa, il viraggio seppia. Osservata per così dire con gli occhi del sentimento, la fotografia ha una tinta e un sentore che pare sottratto alla cartella di cuoio, decotta come un’antichissima sella, in cui fu riposta per galoppare chissà verso quale destino poi incompiuto, così che lì dentro è stata ritrovata.

Al centro dell’immagine c’è un tavolo. Da sotto la tovaglia che lo ricopre, a righe più chiare meno chiare, spuntano le gambe solide che danno l’idea di un manufatto artigianale e ben piantato sul terreno rado e uniforme sì e no, come un campo di bocce campagnolo cui ogni tanto occorreva ai tempi spianare il tracciato con un pesante rullo di pietra, e sparso qua e là di foglioline e di qualche fiore chiaro caduto da una pergola, che non si vede, o da alberi tutti intorno e lo stesso esclusi dal campo.

Sul tavolo una natura morta con bottiglie di vino, molto scure, al naturale forse di un verde cupo che il bianco e nero ha reso con toni di grigio molto particolari, secondo la luce e la vicinanza più o meno all’obbiettivo ;  un largo pane, non una baguette ma per ipotesi un pain campagnard per metà tagliato ; un coltello dall’ampio profilo seghettato e posato lì vicino per sbieco su un tagliere ; alcune fette di quello stesso pane sparse sulla tovaglia ; qualcuna persino sbocconcellata. Nonostante o magari proprio a motivo della sensibilità della pellicola di quel tempo, tuttavia ignoto, si intuisce che la tovaglia è seminata di briciole e si vede che nei piatti, bianchi, lasciati in un disordine da dopopranzo tra bicchieri vuoti o appena  pieni, restano gli avanzi di un qualche intingolo o di un sugo di cui l’alta qualità dell’obbiettivo è riuscita a cogliere e restituire una densità di materia in qualche modo pittorica. Si può supporre che la foto sia stata presa in campagna. O altrimenti in un giardino. Nel giardino di una trattoria come ne esistevano, magari a portata di tram periferici, in città che conservassero campi o colline o boschi intorno. Lo sfondo lontano piuttosto che sfuocato è di fronde grigie, una cortina o una siepe alta di bosso. Da un piccolo varco tra quelle fronde si è insinuato un sole basso e dunque da immaginare già sulla via del tramonto. I suoi raggi tuttavia hanno fulminato l’emulsione fotografica in quel punto così che vi si è formato un abbaglio, un alone di controluce che dà all’immagine il carattere di una messa in scena. Intorno al tavolo infatti, non per caso ma per complicità con il fotografo, è disposto in posa un circolo di persone, uomini e donne ; seduti la maggior parte e alcuni in piedi alle spalle di quelli seduti. La disposizione dei personaggi è frutto, in tutta evidenza, di un gusto per la composizione che il controluce battezza di una luce propria. Non si dice di buon gusto, che c’entra, ma di un gusto che il fotografo ha messo all’opera per equilibrare i pesi nell’immagine. Non è un’ultima cena, piuttosto un dopo pranzo, ma un ritratto collettivo allestito in un set in apparenza significativo nella vita  degli attori di quella riunione. O agape.

Di preciso è difficile, molto difficile capire perché, ma molte nostre sensazioni e persino i pensieri, soprattutto i pensieri, spesso sfuggono all’elementare legge di causa ed effetto per concatenarsi, come fulmini, in ramificazioni che districare poi non è facile ; sicché non si può cogliere con gli occhi né col naso distinguere da quello del cuoio, il profumo che l’immagine emana, un profumo di Francia e di Marna o forse di Heidelberg di… di un luogo di tranquillità, di patti tra eguali, anche soltanto temporanei, e per sicuro di estate, e di gite in barca ; un profumo d’acqua e acqua di colonia, di infatuazioni agli albori e di intese consolidate, di qualche malinteso, di gaiezze e malinconie. Della sete tiepida nei corpi delle donne, che della vita reclamano l’esistenza ; della ritrosia dei maschi che sognano conquiste e, i meno maldestri, melodrammi.

Chi sono e che fanno sono gli interrogativi categorici. Non c’è data però che aleggia tra quelle signore e signori, se non una sua ipotesi effimera come una nuvola che si sfilaccia nel cielo ; ma è evidente che memorie collettive profonde li identificano : sembrano o sono dei borghesi, parola peraltro che li situa meno di quanto non li situi affatto, o di preferenza dei privilegiati da intelletti, da interessi e ambiti comuni.  Ci potrebbe essere tra loro chi ha dovuto misurarsi spesso con l’odore molto definito ma indescrivibile dei corpi in sfacelo ; chi ha fumato sigarette, tenute strette tra le dita sporche di carne umana o che si è rivoltolato in voragini di sangue e budella ; per salvarsi ; e chi ha ascoltato l’agonia di cavalli guerrieri ma involontari ; e chi ha assistito al martirio dei cani nei laboratori ; altri ancora che conoscano la geografia dei pidocchi e i sospiri dalle miserie senza padrini ; le infinite possibilità della morte scientifica e la capacità scientifica della morte ; qualcuno tra loro ha tratto inestimabili piaceri avvinghiato a corpi simili al proprio ; qualcuno ha sfinito il proprio diritto ad esistere all’ombra di madri troppo madri ; pazienti impazienti hanno fiaccato l’indolenza dei medici ; molti di loro, tutti a giudicare dal senso di ordine e misura che promana dalla fotografia, hanno riposto per anni con cura estrema i loro abiti negli armadi, li hanno custoditi e spazzolati, stesi i pantaloni la notte tra rete e materasso di pensioni secondarie per mantenerli in piega ; e hanno lustrato e fatto durare per anni e anni le loro scarpe con cera e sputi. E poi ? E poi sono tutti morti.

Chi erano si ripete la domanda.

Sono tutti belli, chiari, vestiti fino all’ultimo bottone ; uniti dal mistero forse di un’arte, o dal tentativo chissà di prendersi cura o addirittura di prendere in cura il mondo. Ma non c’è risposta nell’immagine. I ritratti tacciono, ossia parlano un’altro tipo di linguaggio, disponibile a qualsiasi equivoco. Se per ipotesi, i loro nomi furono scritti a pennino sopra e sotto ciascun personaggio, anche se qualcuno si prese la briga di scriverli, qualsiasi traccia è svanita. Ah c’è, è un dettaglio  nell’angolo superiore sinistro della fotografia, una macchia che senza sbagliare di troppo parrebbe di vino, asciugato da quanto  lo potrebbe dire  di sicuro chi non c’è più, né qui né altrove.

Da ultimo, un altro particolare si fa notare in quel quadro : in piedi a destra del gruppo e con l’aria di chi si senta inattuale o che stia bene dov’è, al margine, c’è un ragazzino tra l’infanzia e la pubertà. Porta i capelli molto lunghi e stretta tra le braccia, retta da suoi spallacci di cuoio, tiene una fisarmonica. Le dita in vista della mano sinistra sono ancora appoggiate alla tastiera dei bassi. Sono bene a fuoco e dunque ferme e dunque il ragazzo aveva appena finito di suonare. O forse no. Forse, subito dopo lo scatto avrebbe cominciato a suonare un contorno, un ritornello a quell’immagine. E ci si può persino credere.

Per noi è ora di andare a dormire.

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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