
Data di pubbl.: 2024
Pagine: 192
Prezzo: € 16,00
Ci sono libri, come questo di Irene Bonino, che ci aspetteremmo di vedere in vetta alle classifiche dei più letti e apprezzati. Al momento possiamo solo sperarlo perché la sua scrittura è ineccepibile e di squisita eleganza, la storia narrata dolce-amara e traboccante umanità, la ricerca della frase e della parola giuste esemplari.
Caterina ha un quarto di secolo e vive in un paese di pianura non lontano da una grande città. Suo padre è morto da diversi anni, sua mamma Marica, parrucchiera, è mancata da tre mesi. Le resta il nonno Ernesto, ultra ottantenne, stravagante, intelligente, sopra le righe, depositario della storia di famiglia e della metà di trentaquattro oggetti che però non intende aggiustare perché qualcosa di rotto, anche se riparato, non tornerà mai più come prima. Una singolare metafora della vita di ciascuno. Caterina, per mantenersi agli studi di Giurisprudenza, lavora da precaria in un negozio di ferramenta. Il suo futuro ha una forma indistinta come quel punto che si perde nell’infinito, dove le rotaie del treno che prende ogni giorno sembrano incontrarsi. Un futuro che ruota intorno al progetto che nonno Ernesto l’ha spinta a immaginare: laurearsi e scappare da quel paese calustrofobico nel quale lui è rimasto intrappolato. Ha un’amica del cuore, Valentina. Si vogliono un gran bene, ma verrà il momento in cui smetteranno di capirsi. Incontra un ragazzo con cui ha una storia, ma lascerà indietro anche lui con il risultato che i lettori scopriranno, perché:
“…Michele non sapeva che niente, a Caterina, importava meno che guardare il cielo o ascoltare dolcezze a bassa voce, perché niente poteva farla stare bene senza motivo: la felicità era, per lei, distante chilometri, al fondo della fatica con cui stava realizzando il suo progetto.” (pag. 46)
Intanto, un po’ alla volta, nonno Ernesto le racconta la storia della propria madre, quell’altra Caterina vissuta tanto tempo prima della bisnipote, ultima di molti figli di una famiglia poverissima, spedita dal padre in America dalla zia Minerva nella speranza di assicurarle un futuro migliore.
“Ma Minerva era strana. Tu l’hai mai vista, una giraffa? È alta come un palazzo e mastica foglie a tutto spiano con certi occhietti romantici e la lingua blu. … Non c’entra niente con gli altri animali, è proprio fatta in un modo diverso. E la zia era così…” (pag. 52/53)
Strana come sarebbe diventata la bisnonna Caterina, strana com’è la giovane Caterina. Lungo quasi un secolo si svolge la vita di queste donne singolari e indomite, sballottate fra due continenti e separate, insieme a un amore disperato e indistruttibile, da una Guerra Mondiale, prese da un progetto di vita perseguito non per ottenere un premio, ma perché la vita abbia un senso ammesso che sia possibile darglielo. E quegli oggetti spaccati in due altro non sono se non il simbolo dei pezzi – cose o persone poco importa – di cui è fatta l’esistenza: qualcosa si perde, qualcosa finisce per incastrarsi, qualcosa riusciremo a riparare, ma un frammento piccolo o grande resterà sempre fuori posto. Forse è con questo che dobbiamo convivere: con quei frammenti impossibili da collocare o aggiustare fatti di perdite e dolori da ricomporre e da incastonare nel mosaico delle nostre esistenze.