Finalista al Calvino 2012, Simona Baldelli, di origine marchigiana, è l’autrice di Evelina e le fate (Giunti edizioni), un romanzo originale e bellissimo, una storia ambientata in una casa contadina della provincia marchigiana durante l’ultimo anno della seconda Guerra Mondiale. Quest’intervista ci permette di approfondire le dinamiche che hanno originato il romanzo e conoscere qualche aspetto più nascosto dell’autrice.
Qual è stato il processo interiore di Simona Baldelli per affrontare un libro con le caratteristiche di Evelina e le fate?
La decisione di scrivere questo romanzo è stata, al tempo stesso, ponderata e casuale. Evelina e le fate è una storia che mi appartiene da sempre. Evelina è mia madre che nel ’44, anno in cui è ambientato il libro, aveva proprio 5 anni e tutto quello che racconto è realmente accaduto (fate incluse!) o a lei o ad altre persone che conosco. La voglia di raccontare questa storia mi è venuta qualche anno fa, quando si cominciava a parlare delle celebrazioni per il 150esimo dell’unità d’Italia. Vedendo ed ascoltando alcune reticenze e distinguo sull’opportunità o meno di celebrare quella data, ed astrusi ragionamenti sul fatto che c’erano alcuni che erano più o meno italiani di altri, mi ha fatto provare una rabbia tale che ho deciso, nel mio piccolo, di dare un contributo nel ricordare una delle pagine fondanti della Storia del nostro Paese. Anche se credo sia chiaro che, sebbene parlassi di cose accadute settant’anni fa, l’ho fatto con lo sguardo ben attento sul presente.
Ho constatato una sua buona abilità nel far sgusciare fuori una piccola storia da ogni dettaglio raccontato. Basta una nota su un personaggio perché il lettore già immagini. Come ha appreso questa metodologia?
Io ho una formazione teatrale. Nasco come attrice ed in seguito mi sono occupata anche di regia e drammaturgia. Di conseguenza, l’approccio con i miei personaggi, dai protagonisti alle “comparse” è stato esattamente quello che si segue quando si interpreta un carattere che “va in scena”. Per sapere come il nostro personaggio si muove e parla, devo sapere tutto di lui, quanti anni ha, se è alto, magro, claudicante, felice, disperato, che storia personale ha avuto… fatto questo, bisogna scegliere le nozioni che voglio che il lettore/spettatore conosca, e decidere il momento in cui fargliele sapere. Questo vale, per fare un esempio teatrale, sia per il personaggio di Amleto sia per i “becchini”.
Nel suo romanzo la narrazione è condotta da Evelina. In genere se a raccontare certe cose è un bambino – in questo caso Evelina – perché non credere. Questa tecnica l’ha utilizzata per dare maggior credito alla narrazione?
Ho scelto di raccontare la storia attraverso gli occhi di una bambina per varie ragioni. Innanzitutto perché mia madre, Evelina, aveva proprio 5 anni all’epoca dei fatti. Poi perché, da lettrice, amo molto i libri in cui il protagonista, l’io narrante, è un bambino. Faccio alcuni esempi: Altre voci altre stanze; Il giovane Holden; Il buio oltre la siepe; L’isola di Arturo; Aspetta primavera, Bandini (solo per citarne alcuni), e quindi mi piaceva scrivere io stessa utilizzando un protagonista molto giovane (e, quindi, credo che ogni autore scelga di scrivere i libri che lui stesso vorrebbe leggere…). Infine perché lo sguardo di un bambino è “neutro”, non possiede un’idea preconcetta sulle cose, non deve esprimere per forza delle opinioni, non ha sovrastrutture ideologiche né intellettuali. Si limita a filmare gli eventi, come fosse una macchina da presa, e permette quindi al lettore di farsi una propria opinione sui fatti.
Vedrei bene la trasposizione del romanzo in un’opera cinematografica. Cosa ne pensa e da quale regista le piacerebbe vederla realizzata? (Magari c’è già qualcosa che bolle in pentola?)
No, al momento non c’è nulla in pentola anche se molti sono del parere che Evelina e le fate possa essere un buon soggetto per un film. Io ne sarei felice, chiaro.
Qual è stato il momento in cui si è detta “ora sono una scrittrice”?
Oh, santa piadina! Deve ancora venire quel momento… Evelina e le fate è il mio primo romanzo, aspettiamo almeno il prossimo, che uscirà ai primi d’aprile, e vediamo come va.
Il libro le ha cambiato la vita?
Sì. Completamente, in maniera totale ed inaspettata. E bellissima.
Chi le piacerebbe leggesse Evelina e le fate e perché?
Quelli che amano leggere storie che li portano “altrove”. Evelina e le fate parla di ieri e del presente, di realtà e di magia. Credo che piacerebbe in particolare a coloro che prediligono i romanzi ascrivibili al genere del realismo magico latinoamericano. Come La casa degli spiriti o Dona Flor e i suoi due mariti (senza volermi paragonare alla Allende o Amado, per carità!)
Quando lei legge un romanzo cosa cerca?
La capacità di costruire un mondo diverso dalla quotidianità ma che risulti comunque credibile per il lettore. Poi mi piacciono i romanzi scritti con uno stile particolare, unico, dove l’autore cerca di costruire un linguaggio nuovo, creato su misura per la storia che racconta. Non mi interessa particolarmente “cosa” viene raccontato, ma il “come”.
Ora si ponga lei una domanda che non le è mai stata fatta, ma a cui vorrebbe rispondere.
Sai cucinare tutto ciò che viene citato nel libro: tagliatelle, piadine, pasta margherita…? Sì!
Quale messaggio per i lettori de Gli Amanti dei Libri, vuole lasciare una citazione presa dal suo libro?
Voglio lasciare un pizzico di “salvifica magia”. E riporto quindi la descrizione delle mie due fate, La Nera e la Scèpa: “Appena uscì dalla stanza con la tazza di brulé in mano, Evelina la vide.Là, nella penombra dell’ingresso stava la Nera.Aveva gli occhi lucidi, due olive sotto sale, mori, più neri dello scialle e del vestito che portava e la faccia sempre scura che nessuno sapeva se avevano cominciato a chiamarla Nera per via del colore dell’abito o per quel grugno sempre serio. Quando c’era lei tutti si comportavano come si deve, niente risolini, scherzi o sciapate, perché ne avevano soggezione.Era la fata più vecchia della casa e si poteva stare certi che non le sfuggiva niente. Era la prima ad arrivare nella stalla se nasceva o moriva una bestia, e se qualcuno dei bambini si perdeva sulle colline la si poteva vedere dritta, all’orizzonte, indicare la via di casa…”. “La Scèpa era anche bellina però non aveva i denti davanti e infatti quando rideva si copriva la faccia con la mano, perché si vergognava di quella bocca sdentata. Rideva anche se non c’era niente da ridere e per quello la nonna, quando l’aveva vista la prima volta, si era domandata co’ l’ha j’ avrà da rida ‘sta sciapéna, e allora avevano cominciato a chiamarla così, la Scèpa”…