Nel caldo abbraccio di una gremita piazza San Giovanni a Ragusa, mi preparo a intervistare Silvia Truzzi, bravissima giornalista del «Fatto Quotidiano». Introdotto dall’infaticabile e preparatissima Laura Casciotti (che qui colgo l’occasione per ringraziare pubblicamente), ufficio stampa di “A tutto volume”, mi presento a Silvia che mi accoglie con un meraviglioso sorriso. Un paese ci vuole. Sedici grandi italiani si raccontano è un libro particolare. Nasce dall’idea dell’allora (2013) direttore del «Fatto», Antonio Padellaro, che proprio a lei chiese di fare una serie di interviste “politiche” senza però coinvolgere personaggi politici, una sorta di “panoramica” sugli ultimi anni della penisola italiana, visti dalla prospettiva di personaggi autorevoli del mondo della cultura. Questi “Autografi” (così si chiama la serie di interviste uscite sul quotidiano), raccolti in volume e impreziositi da un titolo emblematico, sono poi stati pubblicati da Longanesi, segnalandosi per la lucidità di vedute e per la fucina di spunti di riflessione che la contraddistingue.
Il titolo rimanda e sintetizza la citazione in esergo di Pavese la cui vita è appunto l’emblema dell’incompiuto. Incompiuto come l’Italia?
Quello che viene fuori da queste 16 interviste è un paese che si è perduto. Per questo ho deciso di intitolare il libro Un paese ci vuole. Come ha detto Stefano Rodotà bisogna usare parole autorevoli. Noi un paese l’avevamo e l’abbiamo perduto, ma non abbiamo perso il filo della necessità di ricostruirlo. Per lavoro, giro molto l’Italia e incontro tante persone. Non vorrei fare l’apologia dei giovani, però, parlando con loro, spesso mi capita di percepire un desiderio di cittadinanza e di appartenenza che onestamente si fa fatica a sentire. In realtà, si fa fatica a sentire due cose: la prospettiva e il senso del futuro, cioè il desiderio di proiettare se stessi a domani, e il senso di appartenere a una comunità. Queste sono grandi domande che la politica non si pone, generando l’effetto astensionismo. La politica però non può semplicemente girarsi dall’altra parte rispetto a questi temi.
Nella sua splendida prefazione che presenta e funge da raccordo a tutta l’opera nella sua genesi e nei suoi intenti, lei si rifà subito al binomio paese-lingua, traccia abbastanza costante nel corso delle varie interviste. Lo scrittore Emile Cioran disse che “non si abita un paese, si abita una lingua”. Ecco con la deriva degli anglismi, la risemantizzazione di molte parole, l’edulcorazione dei significati in significanti meno “offensivi” e il conseguente spostamento del contenuto al di là del contenitore, la lingua-casa in smobilitazione è già una spia rossa per il nostro Paese?
Sì, perché per “fare” una buona lingua ci vuole un buon paese e viceversa. Questo è davvero un grande problema. L’italiano, e non c’è certo bisogno che lo dica io, è una lingua meravigliosa. L’uso degli anglismi è un mascheramento o il tentativo, un po’ goffo secondo me, di darsi delle arie. È il caso, ad esempio, dell’espressione “job act” che, peraltro, è cacofonico, mentre l’italiano è una lingua estremamente musicale. Della lingua e dell’utilizzo non proprio rispettoso dell’italiano ne parla benissimo nel libro Pietro Citati. Ciò che si evince da tutte queste interviste è che il sapere non è più un valore assoluto. Un paese invece vale per quello che sa. Il sapere è la competenza sono faticose, per questo si preferisce sempre buttare fuori la palla dal campo, anche semanticamente. I politici ormai parlano per frasi incontrovertibili. L’esempio è: mettiamo la scuola al centro. Ma può un politico oggi dire che la scuola non debba essere messa al centro? No, appunto. Si parla per tautologie e frasi autoevidenti senza mai affrontare le questioni nel loro nucleo.
Trovo l’idea di “pubblicizzare” libri che le sono piaciuti attraverso la sintonizzazione delle citazioni ai vari personaggi intervistati una cosa commovente e bella. Qualcuno le ha fatto almeno i complimenti per questo?
Quando Antonio Padellaro lesse di fila tutte le interviste mi chiamò dicendomi che aveva certamente intuito la fatica che c’era dietro al mio lavoro sulle citazioni ma non si era accorto di quanta, in questa serie di interviste uscite per «Il Fatto Quotidiano» (gli “Autografi”, ndr), ce ne fosse. Io l’ho fatto un po’ provocatoriamente. Intanto perché avevo scoperto che agli inizi degli anni Novanta era uscita una notizia meravigliosa sul «Venerdì» della «Repubblica». I colleghi di un giornale tedesco, non ricordo più quale fosse, avevano fatto una specie di setta. Erano tutti amanti di Topolino e Paperino e inserivano citazioni di Paperopoli in mezzo ad articoli serissimi di economia. Ho trovato questa idea molto divertente e ho pensato di usarla per fare un po’ di pubblicità a libri che bisognerebbe un po’ riscoprire e rileggere.
Tra gli intervistati c’è un personaggio in particolare che l’ha colpita e uno dal quale si aspettava di più?
Emanuele Severino è quello che mi ha colpito di più. Sono andata da lui con grande soggezione perché è il nostro filosofo vivente più importante e non aveva mai fatto interviste sul suo pensiero. In realtà ho trovato una persona molto disponibile, un uomo curioso, affettuoso, aggiornatissimo e informato. È stato un pomeriggio bellissimo dal punto di vista umano, non soltanto di grande arricchimento personale. Io gli facevo domande sulla Lega Nord e lui mi rispondeva sulla deriva della tecnica e sulla realtà. Giustamente mi diceva che non voleva parlare della Lega. La nostra conversazione è stata un lungo braccio di ferro tra argomenti mondani e intellettuali. Mi aspettavo di più, invece, da Dacia Maraini ma soltanto perché è stata l’unica che non sono riuscita a incontrare di persona. C’era stata una tempesta di neve, lei era raffreddata e non siamo riuscite a vederci. Ci siamo ripromesse di farlo presto, però.
La mancanza di Umberto Eco è casuale o dipesa da imprevisti?
Credo che sia dipesa dal fatto che Eco non ami il giornale («Il Fatto Quotidiano», ndr). Gli ho chiesto più volte, anche de visu nell’occasione in cui ci siamo incontrati, di poterlo intervistare. Lui è difficile. La sua risposta è stata che volevo intervistarlo perché non sappiamo più leggere i libri. Io non volevo intervistarlo sui libri, bensì sulla sua vita.
Ciò che si evince dalla lettura del testo è lo sdoppiamento tra il singolo privato e il singolo rappresentante di un’istituzione o ambito. In qualche modo è palese quanto le qualità di molti siano depotenziate dai sistemi che rappresentano o a cui appartengono. Lei ha la stessa impressione?
Rispondo brevemente così: Stefano Rodotà avrebbe potuto essere Presidente della Repubblica. Purtroppo non è stato così.
Qual è la cosa che l’Italia deve assolutamente cambiare per aspirare a un futuro da protagonista o, almeno, da non comparsa sulla scena europea?
Riconquistare la sovranità. Mi rendo conto che questo è un discorso politico e me ne dispiace, ma io ne sono convinta. E anche un po’ d’orgoglio. La domanda è molto bella ma il discorso sarebbe troppo ampio e complesso. La condizione economica in questo momento è dirimente per dire ciò che possiamo fare o essere. Certo una condizione di subalternità non ci tirerà mai fuori da questa situazione. Quindi credo che un modo, ad esempio, potrebbe essere quello di provare a mettere le persone migliori a rappresentarci in Europa. Una volta la politica era fatta dalle élite, oggi invece non ce ne sono più.