Durante il Salone Internazionale del Libro abbiamo incontrato Marco Magini, autore di Come fossi solo (Giunti Editore, 2014), finalista al Premio Calvino e candidato, quest’anno, al Premio Strega. Nella chiacchierata abbiamo cercato di ricostruire gli ultimi dodici mesi della vita di Marco, vissuti in una sorta di dimensione parallela di incredula felicità. Attraverso una capacità linguistica fuori dal comune abbiamo poi voluto analizzare quegli elementi del libro che ci sembravano più originali e innovativi.
Allora, raccontaci un po’ questo viaggio partito dal Premio Calvino e arrivato al Premio Strega. Come sono stati questi mesi pieni di novità e sorprese?
L’avventura comincia con una telefonata di Mario Marchetti, arrivata un giorno in cui ero uscito presto dal lavoro a causa di un black-out. Marchetti mi fa: “Magini? Ma lei ha scritto quel libro pieno di errori di ortografia?”. Poi ha aggiunto che il libro era molto piaciuto e mi ha invitato alla finale del Premio Calvino. Dopo ho parlato con alcuni editori e ho scelto di lavorare con Giunti, consigliato soprattutto dallo stesso Premio che sottolineava la professionalità di Benedetta Centovalli come editor, cosa che confermo in tutto e per tutto. Da qui è iniziato un percorso che ha portato al lancio del libro: la scelta del titolo è stata un po’ combattuta mentre la copertina ho avuto la possibilità di deciderla personalmente. All’inizio c’erano delle perplessità riguardo al fatto che un libro su un genocidio come quello di Srebenica potesse avere anche un apprezzamento commerciale. Per fortuna, anche grazie al lavoro delle libraie Giunti, il risultato è stato molto buono. Ora è arrivato pure questo regalo del Premio Strega. Che dire, se me l’avessero detto un anno fa non ci avrei creduto.
Perché Srebenica? Qual è il motivo che ti ha spinto, fra tutti, a scegliere quella storia e non altre?
In realtà il punto d’inizio è stata la storia di Dražen Erdemović . Ero a Londra e un’amica mi ha raccontato questa storia. Mi sono sorpreso di non conoscerla ma lì per lì non ci ho fatto caso. Poi mi sono laureato e, subito dopo, nel momento del passaggio dall’Università al mondo del lavoro, in cui mi sono sentito un po’ perso, ho ricercato altre notizie su questa vicenda proprio per trovare un punto di riferimento per la mia vita. Tra stage e piccoli lavoretti che non mi piacevano, ho iniziato la notte a coltivare il progetto di scrivere un libro che non sapevo dove mi avrebbe portato. Srebenica, in fondo, è stata una conseguenza della ricerca di notizie su un personaggio affascinante e misterioso come Dražen.
Hai strutturato il libro in una maniera complessa: tre voci, tre ambienti e tre tempi differenti. Come sei arrivato a questa scelta?
Il libro è cambiato molto in un percorso che mi ha preso quasi quattro anni, anche per il necessario lavoro di documentazione. Fin dall’inizio erano presenti le storie di Romeo Gonzalez e Dražen Erdemović di cui avevo ben chiaro il punto d’arrivo. Questo nonostante, in principio, presentassero aspetti dissimili rispetto a quelli attuali. La terza storia, invece, era quella della figlia di Mladic, raccontata in forma di diario perché mi sembrava che in tal modo le tre vicende potessero raccontare in forma allegorica quello che era stato, in toto, il conflitto balcanico. Una storia che in Spagna, nel frattempo e senza che lo sapessi, veniva raccontata in un romanzo, pubblicato poi in Italia da Sellerio. Dopo due anni mi sono accorto che tutto ciò non funzionava e che mancava il punto di vista della comunità internazionale: ovvero una voce che riportasse ciò che noi non abbiamo fatto pur sapendo che cosa stesse succedendo in quei luoghi. Lì è nato il personaggio di Dirk che, oltre ad essere stato l’ultimo a entrare nel romanzo, ha dato alla narrazione un indirizzo più legato a Srebenica che al conflitto in generale.
Trovo che “Vorrei non dovermi ancora una volta svegliare in mia compagnia.” sia uno degli incipit più belli scritti negli ultimi anni. Quanto è importante questo elemento in un romanzo?
Credo sia fondamentale, soprattutto per un esordiente. Il Premio Calvino riceve tantissimi manoscritti ogni anno dunque dovevo per forza pensare a qualcosa che potesse subito colpire la loro attenzione, qualcosa che trascinasse i lettori immediatamente dentro il libro. Non volevo poi che tutto, nel romanzo, fosse chiaro ma che il lettore andasse lentamente, con i protagonisti, verso il massacro. L’incipit doveva aiutare a creare questa curiosità e completare una struttura che rispettasse questo intento.
Il 23 c’è la finale della nuova edizione del Premio Calvino e poi l’apertura di un nuovo bando. Che suggerimento daresti ad un ragazzo che ha un romanzo nel cassetto e che sta pensando di inviarlo?
Il Premio Calvino è veramente una realtà unica nel panorama italiano. Visto da dentro fa ancora più impressione per la professionalità e la passione. Queste persone si trovano a lavorare con tanti manoscritti e danno a tutti una possibilità di essere letti e di ricevere una scheda di giudizio che serve a darti una marcia in più. Ho parlato con tante persone che al secondo anno hanno avuto la possibilità di pubblicare anche grazie ai consigli del Premio Calvino. Per me è stata come una palestra: la ricezione del giusto feedback dopo tanti anni di duro lavoro.
Ultimissima battuta: com’è trovarsi al Salone Internazionale del Libro con lo status di scrittore?
Stare dall’altra parte della barricata è bellissimo, davvero bellissimo. Anche se, a dirla tutta mi sento ancora un lettore più che uno scrittore…