Autore: Francesco Borrasso
Casa Editrice: InSchibboleth
Genere: Romanzo di formazione, Romanzo drammatico, Romanzo famigliare
Traduttore: Francesco Borrasso
Pagine: 168
Prezzo: Euro 15
Quando scompare il proprio padre inaspettatamente presto si aprono voragini sotto ai piedi: da quel momento sappiamo essere tutta un’assenza, un rimpianto di cose che si sarebbero potute fare assieme e non sono state neanche pensate, la vista offuscata dall’illusione dell’eternità.
Ognuno reagisce come crede e può: pagando a caro prezzo, anche, quando corpo e mente decidono di opporre una resistenza tutta loro sfuggendo a ogni controllo.
Accadde così a Francesco Borrasso, scrittore salernitano, editor e sceneggiatore, già autore, tra gli altri, de La Bambina celeste (Ad est dell’Equatore), che in Restare vivo – per i tipi di InSchibboleth, nella collana Margini diretta da Filippo La Porta – narra in prima persona della prematura perdita del padre per un aneurisma e della sua personale, conseguente discesa in un inferno privato di depressione e attacchi di panico che lo hanno tenuto in ostaggio, mettendogli la vita in condizione di sospensione per lungo tempo.
Per porre tutto nero su bianco, Borrasso ammette di aver dovuto incidere un profondo iato dal momento della morte, lasciar passare dieci anni di maturazione e di distanza in modo di prendere respiro, recuperare per quanto possibile i dolori antichi che appaiono brillanti, freschi, come appena nati dentro gli occhi, ritrovare una pur limitata pace e, forse, ricostruire sé stesso.
Si muove piana seguendo l’affiorare delle memorie la narrazione, tra quelle di infanzia – il giubbotto rosso e la mamma che mi prende per mano e mi spiega i pesci nella vasca circolare della villa comunale, in una mattina che esplode di luce, con le foglie secche che fanno rumore sotto passi e il mio sorridere incerto. L’acqua nei vasi e l’odore dei cimiteri, le porte a vetri, le immagini della Madonna, il Crocifisso a scuola sopra la testa della maestra, i viali silenziosi; leggere una poesia davanti a una lapide per restituire alla memoria tutte le cose perdute – e quelle degli anni a venire, che restituiscono una figura paterna attenta, presente, che si staglia mitica, dominandolo, sullo sfondo.
Il focus però dopo alcune pagine si sposta sull’autore stesso, sul suo corpo che cede, che non può incamerare tutto quel dolore senza che le gambe soccombano, l’aria diventi solida e prenda sapore di ferro e di zolfo. Ha solo ventisei anni e un corpo che si fa prigione, rendendogli impossibile ogni lavoro, perfino ogni svago.
Attraversare il dolore senza ignoralo è per lui l’unica via, la prima consapevolezza.
La seconda è che solo la scrittura potrà salvarlo da sé stesso.
Affonderà nella descrizione di tutto ciò che sta passando: lo farà con maestria e stile, e una lingua accorta, precisa e puntuale, senza risparmiarsi su terapie e senso di fallimento. Cadute, risalite e poi di nuovo precipizi: nulla di lineare e prevedibile, perché, scrive, la depressione è una terra continuamente esposta.
Tra le sofferenze del presente e i ricordi che si affastellano rapidi, Borrasso nella scelta di scrivere lascia decantare la sofferenza, in un modo appropriato sublima la morte del padre, quasi chiudendo un cerchio: era stato il genitore, difatti, che lo aveva avvicinato alla lettura, ed è sempre lui che più di vent’anni dopo scompare, lasciando un libro letto a metà poggiato sul comodino con un segnalibro in mezzo, in una stanza di troppi silenzi, accanto a un calendario vecchio di tre anni che nessuno si decide a gettare.
Un libro come un segno, che una sera suscita la curiosità dell’autore che gli si avvicina ma poi decide di non prenderlo in mano e di lasciarlo così, letto a metà, come forse è giusto che sia: un ennesimo atto di rispetto, di grazia e di misura come la scrittura di Francesco Borrasso che è delicata, lieve, lontana da ogni tentazione di retorica, pudicamente – opportunamente – accorta.