L’ElzeMìro – Mille + infinito-Strofa e ritornello

     

– Ho raccattato due petali di tulipano caduti per strada, da un non so quale mazzo, o volati fin lì da non so dove. magari da un aiuola. magari anche scappati a uno di quei venditori strada strada. ce n’è uno che conosco, cioè che vedo, è da un po’ che girovaga con i suoi mazzi di speranze, le sue di venderli tutti i suoi fiori, a buon prezzo. prima gli compravo specie a primavera le mimose che piacevano tanto a ah ah. da quando gli ho detto che sono vedovo, mi sta non dico lontano, però vedo che ha ritegno. è un orientale, non so dire di dove, bangladesh forse, forse sarebbe capace di uccidermi con destrezza ma ha questa cortese gentilezza nei miei confronti che mi fa bene al cuore. ce ne sono altri che bazzicano il centro, io dico che si dividono per zona così ognuno si fa il suo giusto guadagno. questo lo penso io che non so se esista una giustezza o quantomeno un’opportunità del guadagno. ma mi interessa poco ormai.  non ho più da fare il salamone, mi fa ridere molto ancora la storpiatura che usavano i bambini, il salamone per dirimere le loro beghe stupide. che poi se guardi sono le beghe che le persone si trascinano intatte dietro, dalle elementari alle medie, alle parlamentari ah le beghe sono sempre le stesse. che barba. i petali appassiti mi spiace sempre gettarli, li raccolgo come non so come, in casa li lascio lì sulla mia scrivania di scrivano fiorentino che ‘un c’ha più nnulla o icch è da scrivere. li guardo dismettersi giro dopo giro delle ore, evapora la linfa, rimane il supporto di carta poi stinge, si restringe. e fine.–

Ti dico, questa specie di prosa poetica che ti ho letto è l’ultima pagina del diario del nostro maestro come avresti ascoltato al loro tempo da certi dei comici televisivi accreditati, in un loro celeberrimo numero… il nostro maestro guadagna ; ma ti parlo degli anni forse sessanta, tu non puoi saperne e chi erano non te lo dico. Un tipo cechoviano il nostro maestro. Elementare. I maestri principiano e finiscono con l’assomigliare sempre agli autori che hanno amato o amano ancora, come i padroni i cani che lasciano dormire sul letto accanto a loro. Stessa cosa. Questa allora è adesso una cosa di elementare semplicità, ma non è una storia, voglio dire che al solito ti racconto ma ti racconto per affinità elettiva, dire non ti dico niente. Nonostante un argomento tiri l’altro e tutti e due tirano in lungo. Un tipo dico, non si può dirne il nome perché i figli sono ancora viventi, vorrei mica, tuttavia anonimo al punto che potrebbe chiamarsi con uno di quei nomi fantasma, Mario Rossi, sai nelle caselle delle schede, forms, da compilare in rete per qualsiasi cosa. Chi ne predispone o conta sull’intelligenza naturale del compilatore e ha fiducia che alla richiesta di nome e cognome se la cavi rammentandosi il proprio, oppure che sia presente un figlio a rammentarlo al vecchio demente, oppure spera che una qualche intelligenza artificiale se nella casella del nome e cognome metti un esempio ad esempio, mario rossi di solito, capisca non che deve scrivere Mario Rossi ma il nome del postulante, richiedente, loggante generico. Poi c’è il riquadro della mail e del telefono, di solito quello per l’indirizzo via piazza corso, comune, provincia e, eh bè tutto un fac simile. Torno al grano. Questo tipo dal nome senza tipicità, da questo momento in poi detto il nostro maestro, aveva una certa età ma non un’età certa. Pensionato conclamato dalla scuola primaria Tito Speri di, lasciamo perdere. Tutto quello che seguito a raccontare dipende al solito dal privilegio accordato a chi narra di saperla lunga fin dentro dove tu non arriverai mai. Per quello ci si rivolge da millenni a un cantastorie o a un contaballe. Omero sapeva tutto dei pensieri di Achille ma persino di Atena o di Apollo. Tu del nostro maestro nulla. Comincio a dirti da quando lo trovi a letto in attesa di dormire. Ecco : si girò di qui, si girò di là, sotto il peso di mille coperte, freddoloso com’era sempre stato. Stava come sempre in paziente attesa. Ché prima o poi il sonno arriva o, se non arriva, occorrerebbe domandarsi se dormire è proprio necessario. Questo è un pensiero che lo ha sempre fatto pensare insieme a quest’altro, di un tale, se non riesci a dormire vuol dire che non ne hai bisogno. Insomma il nostro maestro si girò ancora una volta, un po’ come fanno a volte i gatti, sai no, che saltano su una poltrona liscia, pulita e poi si voltano e rivoltano su sé stessi come se fosse difficile trovare la giusta posizione sul cuscino di velluto o di quello che è, come se la posizione esatta per il proprio pisolino fosse questione di decimi di millimetro in qua o là. Il nostro maestro fece appunto così e ancora una volta, in un lampo di inquietudine ma poi si quietò, sbuffò, mise fuori un lungo fiato, un fiato che non si era accorto di avere trattenuto fino a quel punto e a quel punto, gli attraversò la mente una strofa con ritornello di un attore comico di quando lui era bambino, non piccolissimo, anzi, di quando avendo ricevuto in regalo una piccola valigetta giradischi, ma piccola ; i dischi più grandi, aspetta che te li chiamo vinili così che capisci, i vinili grandi da trentatré giri sbordavano dal piatto per metà del loro raggio, ma al principio del suo tempo il nostro maestro di trentatré ne aveva due, uno con la pastorale del Beethoven, l’altro con una raccolta di marce tedesche dalla Radetzky in poi – regali, ignoti e inutili gli autori – ; gli altri tutti quarantacinque giri di raccontini sceneggiati, lui ascoltava a ripetizione la storia di Pecosbill e di alcune fiabe, adattamento radiofonico e compagnia di prosa di attori anche di qualche nome ma dimenticati. Oggi li chiameresti podcast. Infine discolini di alcune canzoncine cantate da quel comico, una faceva dove vanno a finire i palloncini quando sfuggono di mano ai bambini Dove in quella veglia pensosa non tornava alla memoria che, dopo vari sorvoli e giri e rigiri, planava su una più complessa poetica : sono più inutile di un buco in una tasca…di un venditor di frigoriferi in alaska… di una tessera del cine che… poi scopri che valeva il giorno prima e oggi no… qui il ritornello : ieri sì oggi no ieri sì oggi no. Cercò di ravanare il nostro maestro in quel frammento il legame con altri frammenti della canzonetta di cui ricordava una nuvola, sapeva che ce n’erano, ma niente. Come su un disco appunto la puntina capitava saltasse su un solco ammalorato e continuasse a saltare finché l’ascoltatore, un colpetto di mano e faceva proseguire la puntina oltre l’ostacolo… Ieri sì oggi no… A questo punto il nostro maestro  fu inghiottito nel sonno dal sonno. Hýpnos.

Si era sempre detto il nostro maestro, È meglio abituarsi a morire per qualche ora quando poi dormirò per sempre. In questo modo ogni notte scacciava il timore che adombrava il sonno e nello stesso tempo l’insonnia e ancora l’ansia generata dai dubbi, appunto sempre risolti, circa l’uso del  sonnifero. Il sonnifero lo prendeva da anni proprio per dormire, cioè per non svegliarsi più nella metafora che a volte i nostri intenti nascondono. – vedi che c’è una bella lirica L’arbol del olvido-l’albero dell’oblìo del poeta di Montevideo Fernán Silva Valdés  messa in musica molto bene da Alberto Ginastera, questo nome non mi è nuovo ; contiene una bellissima ottava, il metro prevalente, Los moribundos del alma-imoribondidellanima e chiude la seconda strofa con, Y me quedé bien dormido-emisonaddormentato – . Tiriamo innanzi. Da quando era rimasto solo, vedovo di un persona adorata più che cara, continuava a vivere in una casa cui aveva smesso però da quel momento di riconoscere il titolo e il valore di casa ma in cui continuava a stare, per non sapere dove andare, e per non poterla vendere paralizzato dall’idea del trasloco : come avrebbe potuto infatti non spostare, ma disfarsi di quintali di oggetti inutili, dei libri di scuola che aveva conservato dagli anni e dei libri delle miriadi di classi elementari in cui aveva prestato servizio per quarantadue anni, fino alla pensione accumulata di quasi duemila euro ogni mese ; con quella della moglie, una delle ultime mèdiche condotte del mondo, che gli spettava per non sapeva quale diritto ma decurtata, la sua vita solitaria – domandarsi quale non lo è dal momento che si osserva come tutti si adoperano per riempirla in qualche modo : amici o  mici o orrendi cagnolini dalla straziante affettuosità – la sua vita solitaria, pagate le spese condominiali, non era certo da un punto di vista economico di quelle disperate. Il sonnifero però era indispensabile non tanto per addormentarsi quanto per non svegliarsi metti alle due, alle tre di notte e allora poi… si sa come va. Da anni diceva al muro di fronte al letto che quelle gocce erano sacre a mofeo. E le contava con precisione e le osservava cadere nel bicchiere di acqua calda in cui le guardava descrivere bellissimi ghirigori nell’acqua appena toccata la superficie a diluirsi in un lievissimo color del tè pallido che fanno in estremo oriente.

All’inizio il nostro maestro pensò che dormire non fosse obbligatorio ; di avere il dovere di ubbidire a un organismo che al sonno di suo si rifiutava, che la veglia, l’essere svegli sembrava preferire. Poi era riuscito a farsi sacerdote di morfeo.  Detto di sfuggita, lui, il nostro maestro aveva smesso di bere dopo un periodo della sua vita in cui aveva sfiorato l’alcolismo e se n’era allontanato, per volontà e un non piccolo aiuto di un sert, quei centri dove vai a  pulirti. Per la verità sapeva benissimo che le dosi di vino cui ricorreva erano calcolate a puntino, per provare l’ebrezza di una quieta distanza dal mondo ; detestava il malessere dell’alcool, le vertigini, la nausea ; nell’alcool assunto con moderazione trovava i benefici che da giovanissimo e con lo stesso scopo, la quiete, il confinamento della realtà oltre un limite in cui non può più far male, gli avevano dato a basso prezzo la miscela di bellergil, un barbiturico, e certe pastigliette di codeina per la tosse – oggi non le troveresti e ti direbbero che sei un tossico, il che ha qualche grado di verità  –. Ma lui fin lì non era arrivato. Non arrivava mai a stare male. Non giunse all’assuefazione ma se ne ritirò per tempo : a non desiderare pastiglie – il mio Lete del Loto, diceva, guardati la mitologia in merito – né dopo, di bere ancora, ma questa non è una regola che valga per tutti, ognuno ha il suo punto di ritorno e di non ritorno ; chi va oltre bah forse non decide per il sert o per quelle cose che si vedono nei film americani dove l’anestesia dell’alcool o delle sostanze sostituiscono con ⅓ di bontà, ⅓ di vangelo e ⅓  di ce-la-puoi-fare. Gli americani sono soci in affari della sopravvalutata volli-volli. Da un cocktail a un altro. Ognuno, chi più chi meno, da conflitti ideologici, formalismi educativi, e mitologie mal sorbite nel corso del tempo che passa, è spinto a credere con maggiore o minore forza di dover dare al desiderio in sé forma di desideri, di obblighi, di voluttà senza le quali, è la voce comune, non solo non saresti qui, ma nemmeno saresti. Mah, certo che qualcosa occorre pur volere nella vita, la pizza su una terrazza al mare la domenica, qualche piaceretto per cui l’animaletto si trovi grato alla non richiesta natura per averlo piazzato qui e adesso e adesso e adesso… ma quando finisce… ecco il punto, il nostro maestro a contarle le gocce di morfeo si era perso. Poniamo che anche mozart fu cucito in un telo… magari nemmeno tanto pulito tanto… portato in un cimiteraccio e scaricato in una fossa comune… come in una pattumiera…

Il nostro maestro si era guardato i piedi magri appena scivolati fuori dalle pantofole, solo pantofole lui, ciabatte mai, e adesso che mal tollerava il freddo e spesso i piedi gli si gelavano, come le mani del resto senza un motivo particolare, si era comprato un bel paio di pantouffle epistouffle imbottite di un morbido vello di lana. Adorava. Si era tirato su una gamba. E massaggiato un piede, poi l’altra e idem. Finalmente si coricò. Spense la luce. Poi appunto si girò di qui, si girò di là. Troppe note, ricordò una battuta detta da un cretino a Mozart nel film Amadeus. Troppo note un corno. Guardò torno torno a sé per quel che gli permetteva il buio della stanza, mai troppo buia, teneva le persiane aperte nonostante la luce che gli arrivava da un lampione giallo lì sotto nel vicolo isolato su cui si affacciava la sua stanza. Ma insomma, si era detto, fintanto che sono radames preferisco non dormire nella tomba di aida. Poi… Sono più inutile di un buco in una tasca… di un venditor di frigoriferi in alaska di una tessera del cine che poi scopri che valeva il giorno prima e oggi no…ieri sì oggi no… Si addormentò con la testa che gli cantava… ieri sì oggi no…

All’alba pioveva una pioggia pesante e la pioveva a vento. Sicché i vetri della finestra nella stanza tremavano ogni volta che li colpiva un gregge di gocce come pecore sferzate dal bastone di un ciclope. Nel letto il nostro maestro era disteso. Supino. Non si muoveva.

Pasquale D'Ascola

P. E. G. D’Ascola Ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: Le rovine di Violetta, Idillio d’amore tra pastori, riscrittura quet’ultima della Beggar’s opera di John Gay, Auto sacramental e Il Circo delle fanciulle. Suoi due volumi di racconti, Bambino Arturo e I 25 racconti della signorina Conti, e i romanzi Cecchelin e Cyrano e Assedio ed Esilio, editato anche in spagnolo da Orizzonte atlantico. Sue anche due recenti sillogi liriche Funerali atipici e Ostensioni. Da molti anni scrive nella sezione L’ElzeMìro-Spazi di questa rivista  sezione nella quale da ultimo è apparsa la raccolta Dopomezzanotte ed è in corso di comparizione oggi, Mille+Infinito

Ti potrebbero interessare...

Login

Lost your password?

Per continuare a navigare su questo sito, accetta l'informativa sui cookies maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi