
Data di pubbl.: 2023
Pagine: 139
Prezzo: € 20,00
Ha circolato poco la poesia di Pasquale Pinto. Pinto è uno di quei poeti del Sud di cui si è persa memoria, o forse non ne ha mai avuta una.
Nonostante gli apprezzamenti critici di Giacinto Spagnoletti e Giorgio Caproni, del poeta tarantino nel corso degli anni si sono perse le tracce ed è stato sempre più difficile recuperare i suoi libri.
Grazie a Stefano Modeo per i tipi di Marcos y Marcos esce La terra di ferro e altre poesie (1971 – 1992), un volume che raccoglie la sua opera, rendendo giustizia alla sua poesia che si inserisce a pieno titolo nel solco di quella linea meridionale che ha dato al nostro Novecento grandi e indimenticabili poeti.
Pasquale Pinto è nato a Taranto il 15 aprile 1940 e ha lavorato all’Italsider, il mostro siderurgico che ha messo in ginocchio la città pugliese e che oggi conosciamo come ILVA.
Pinto scrive poesie partendo dalla sua esperienza e la vita in fabbrica diventa il tema principale intorno a cui ruota tutta la sua produzione.
Pinto poeta operaio come il grande Luigi Di Ruscio si aggira nella terra di ferro del mostro dell’acciaio e sul taccuino annota e denuncia le condizioni di lavoro, l’alienazione dell’operaio distrutto e sfruttato dalla vita in fabbrica.
«In questo senso – scrive Modeo nel saggio puntuale che chiude il volume – Pinto si iscrive a pieno titolo anche in un filone di letteratura operaia, insieme ad altri nomi; pensiamo a Tommaso Di Ciaula o Luigi Di Ruscio. Poeti capaci di tradurre la condizione operaia in condizione umana. Il suo verso breve, scarno, ritmato, essenziale, come la sua produzione. Uomo dal carattere schivo, solitario, al riparo dalla mondanità e dai corteggiamenti letterari, Pinto inaugura, probabilmente, una ricca letteratura che dall’insediamento della grande fabbrica ha cominciato a muovere i propri passi, consapevole di raccontare un luogo emblema del profondo squilibrio ecologico, ma anche lavorativo, del diritto alla salute e alla vita».
Pinto, uomo e poeta concreto, scrive dalla terra di ferro, racconta la desolazione, si indigna e in maniera diretta e viscerale denuncia «la possibile parentela / dell’uomo col ghiaccio».
Simone Giorgino nella prefazione scrive nei versi di Pinto la fabbrica – mattatoio di Taranto, tristo teatro di morti bianche e di continui incidenti sul lavoro, è una distopica e concretissima waste land attraversata non da uomini ma da solite ombre appesantite di fuliggine.
«Un operaio / è caduto l’altro giorno / da un altoforno / 70 metri / sempre in giù / sempre più giù / verso la terra dei vivi / salutata finalmente dal cielo».
Inizia con questi versi La terra di ferro, il poemetto con cui il poeta tarantino entra nel cuore del mostro con lo scopo di testimoniare il degrado e l’orrore di quella fabbrica immensa che inghiotte le persone, riuscendo con la sua poesia trasparente a dare una devastante rappresentazione di questo modello produttivo disumano con cui oggi Taranto e il paese intero stanno ancora facendo i conti. Ed è forse la prima volta che in poesia si cominciano a denunciare le morti sul lavoro.
È importante recuperare la memoria e l’opera di Pasquale Pinto. Grazie a Stefano Modeo, che ancora una volta dal Novecento che ci manca (ricordiamo la sua recente curatela de Un doppio limpido zero. Poesie scelte 1945 -1980, un volume antologico del poeta Raffaele Carrieri, tarantino come Pinto) ci riporta al Sud e riapre il libro dei poeti della linea meridionale, che abbiamo il dovere di leggere e di difendere dall’oblio sempre in agguato.