Eccomi, con la mia seconda intervista, che ho avuto l’opportunità di realizzare in occasione di Pordenone Legge 2024. L’incontro è con Rita Ragonese autrice di “La vita contro”, pubblicato da Fazi Editore.
Buongiorno Rita, grazie infinite a te e Fazi Editore per l’opportunità che mi date di realizzare questa intervista, in occasione dell’uscita del tuo romanzo. Come dico ad ogni autore con cui ho la fortuna di intrattenermi, per me è sempre un privilegio ascoltare uno scrittore, ascoltare colei o colui che mette su carta, da vita e concretezza a pensieri, riflessioni e storie, che potranno così perpetuarsi nel tempo, puntare all’eternità, non essere dimenticati. Tutto questo è sempre stupendo, qualsivoglia siano trama, tema o ambientazione.
Passo allora alla prima domanda, e ti chiedo questo:
- Da dove nasce questo tuo lavoro? Da dove provengono le due storie che plasmano il tuo romanzo?
R: Oltre che dalla conoscenza dei problemi ambientali di un territorio preciso – Venezia, Mestre e laguna – l’idea del romanzo nasce dall’esigenza di dare la forma delle parole a una ricerca personale che intimamente conducevo da tantissimo tempo e che riguarda le ragioni che portano alcune persone alla realizzazione di sé e altre a rimanere invece incastrate in situazioni deprivanti. Scrivendo ho creato conflitti, ci ho calato i miei personaggi e li ho messi alla prova mentre, osservandoli, mi chiedevo da che parte sarei stata io. Ho lavorato come assistente sociale per oltre trent’anni e infinite volte mi sono trovata davanti a silenzi pesantissimi, all’incapacità delle persone di immaginare una via di uscita da situazioni dolorose. Ho voluto immaginare io per loro, entrare in quei silenzi, soprattutto delle tante ragazze di cui mi sono occupata, per capire quali tumulti fossero in corso dietro le facciate e con quanta fatica stessero conducendo le loro esistenze. Ho voluto, appunto, immaginare, cose che le persone in generale spesso si negano considerando questa un’inutile attività. E dunque i miei personaggi sono frutto di sintesi della sfaccettata umanità che ho incontrato nella mia vita lavorativa.
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- Storie di sofferenza, o come piace definirle a me, storie di fatica, ne incontriamo e sentiamo ovunque, e coinvolgono le persone più diverse tra loro. La tua scelta di mettere come protagonisti una giovanissima ragazza ed un uomo quasi anziano, a pochi passi dalla pensione, è una scelta ben precisa, vuole dire qualcosa di particolare, o è frutto del caso?
R: Niente è stato lasciato al caso. Per Umberto, l’uomo prossimo alla pensione, i giochi della vita, in questo caso i drammi, sono già stati consumati, resta però ancora del tempo per sistemare l’incompiuto. Ce la farà? Per la ragazza, nonostante molto di fondamentale sia già successo, c’è ancora il futuro. Umberto e Angela rappresentano dunque due fasi della vita che restano sempre collegate in un rapporto di continuo scambio. Angela potrebbe vedere in Umberto il proprio futuro di deprivazione affettiva a meno che non convergano su di lei forze – compresa quella offerta da Umberto stesso – in grado di condurla in altri punti di vista da cui osservare la propria vita, le potenzialità e la bellezza riservate a chi è disposto a vedere oltre. Anche per Angela: ce la farà?
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- Le due storie, di Angela e di Umberto, sono uguali e diverse allo stesso tempo, nel senso che sono drammatiche entrambe, ma una se così si può dire, nasce da una scelta (per quanto istintiva, dettata da un innamoramento acerbo, dall’ingenuità), mentre l’altra è frutto tutto sommato di una gran sfiga, o meno volgarmente del classico “trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato”.
Ci puoi chiarire il senso di questa contrapposizione, dell’accostamento di queste due storie dalla natura così simile e così diversa?
R: In realtà per entrambi si tratta di scelte, magari non consapevoli ma pur sempre scelte. Umberto è nato e cresciuto in un quartiere popolare con il quale si identifica: ci è profondamento legato, cosa che può soddisfare un bisogno affettivo e di appartenenza ma che allo stesso tempo può limitare le possibilità di espansione nel mondo. Lui cade in questo rischio, se ne renderà conto quando incontrerà Daniela, l’amore della sua vita, e sentirà di averla quasi rubata al suo più brillante destino poiché lui continuerà a sentirsi “popolare” e inadeguato: non farà la scelta di smarcarsi dall’identificazione con il quartiere e in qualche modo si autopunirà per aver osato credere in qualcosa di troppo alto. C’è quindi la stessa radice in entrambi i personaggi, che è la responsabilità della scelta ma laddove per responsabilità NON si intende colpa. Ciò che cambia tra la responsabilità di Umberto e quella di Angela è solo la declinazione.
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- E vengo ad una domanda un po’ più piccante. Entrambe le storie ci parlano di genitorialità, un tema molto vivo nel dibattito moderno, politico e sociale. Ognuno dei protagonisti, Angela e Umberto, insieme ai loro partner e non solo, vivono dinamiche molto intense di genitorialità, e anche non proprio così comuni e facile da affrontare e gestire.
Non credi che i genitori oggi siano troppo giudicati (e spesso da chi genitore non è, come accade per tanti altri argomenti), e invece poco supportati? E poi, come succede in particolare ad Angela, come si suol dire, si chiude il cancello quando i buoi sono scappati, cioè: quando accade il fattaccio, di qualunque tipo, ecco che arrivano esperti e specialisti di ogni tipo a dirti, cosa avresti dovuto fare, cosa devi fare ora, dove hai sbagliato, perché e per come hai fatto questo invece che quest’altro e via dicendo. Questa situazione appare evidente, a mio parere, nei primi incontri di Angela con il personale della comunità. Ti chiedo se ti va di dirmi qualcosa su questo tema.
R: Hai ragione nel dire che oggi c’è troppo giudizio soprattutto espresso a proposito di temi da cui il giudicante è lontanissimo per esperienza di vita. Questi si intrufola nella vita degli altri con l’intenzione di portare ordine – il suo senso di ordine – quando avrebbe molto da fare nella propria. I frequenti fatti di cronaca che vedono troppo spesso i giovanissimi coinvolti come autori di violenze spietate destano però molta preoccupazione: di che valori sono portatori? Cosa non ha funzionato nella trasmissione del valore della vita? Domandarselo è più che lecito. L’adolescenza non è una malattia e i genitori hanno precise responsabilità nella gestione di questa fase della vita dei propri figli, fase che comporta necessariamente lo scontro in famiglia: è fisiologico, attraverso il conflitto si cresce, ci si definisce. Oggi però in questa fase c’è maggior bisogno di supporto esterno perché la nostra è una società molto complessa con dinamiche nuove a cui, a mio parere, non siamo ancora adattati. E purtroppo l’offerta di questo supporto da parte delle istituzioni non è sufficiente, non è disponibile ovunque, e soprattutto è irrisoria nelle zone più a rischio. Abbiamo bisogno di maggiori investimenti pubblici perché c’è una generazione in forte sofferenza, solo così sarà possibile evitare i troppi interventi tardivi. Ma, ahimè, questa sensibilità pare essere latitante in quelle che dovrebbero essere le giuste sedi decisionali.
C’è comunque un limite all’intervento tempestivo non richiesto, sarebbe una forma di controllo intollerabile quella di regolare le relazioni intra-familiari che per loro natura non sono mai piatte; le relazioni fanno parte della vita delle persone e delle famiglie che non sono prodotte con lo stampino ma hanno ognuna le proprie caratteristiche e i propri vissuti anche culturali. Ma se da un lato riteniamo auspicabile il libero accesso da parte delle famiglie alle varie forme di sostegno (purtroppo scarse come dicevo), altra cosa è il verificarsi di maltrattamenti di qualsiasi tipo: in questo caso la questione è decisamente diversa, un’altra storia che non possiamo certo liquidare con poche parole rischiando fraintendimenti: avendo lavorato nei servizi sociali so bene quanto delicata sia questa materia, ci sono precisi riferimenti normativi da cui discende una complessa pratica professionale. Nonostante ciò troppe persone si esprimono a riguardo senza averne la competenza e senza nemmeno l’intenzione di comprendere, ma solo per l’impulso ad attaccare l’una o l’altra parte. Purtroppo questo è un campo sovrappopolato da pseudo opinionisti che hanno fatto del gossip la propria attività principale e si nutrono con morbosità dei drammi familiari altrui.
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- Ora qualche domanda sulla scrittrice più che sull’opera:
Sei una scrittrice “di progetto” o che lascia più volentieri o preferibilmente spazio all’ispirazione, alla spontaneità? In sostanza, progetti prima il tuo lavoro o lasci andare la mente e la penna?
R: Ho la necessità assoluta di documentarmi e di progettare il lavoro. Una volta costruita l’ossatura, e anche visualizzata poiché mi avvalgo di schemi, fogli appesi, fogli excel, ecc, posso lasciarmi condurre dall’ispirazione per la stesura delle scene. Nel caso di “La vita contro” è stato di grande ispirazione il mio gironzolare per le calli veneziane e le strade mestrine e addirittura il sostare per ore alla Giudecca davanti al carcere per poi seguire passo dopo passo il percorso che avrei fatto fare ad Angela.
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- Stai già lavorando a qualcosa di nuovo? Puoi dirci qualcosa senza svelare troppo?
R: Sì, confermo. Sono ancora alla fase di documentazione e progettazione, ma ogni tanto se arriva una scena la afferro subito, la scrivo e la metto in salvo. Stavolta ci sono Trieste e gli anni ferventi della rivoluzione della psichiatria.
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- Cosa leggi più frequentemente, o cosa stai leggendo in questo periodo?
R: Adesso sto leggendo Sally Rooney, in particolare Normal people in lingua originale avendolo letto e molto apprezzato in traduzione. Prima di questo ho riletto Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, uno dei miei libri preferiti. Cerco anche di seguire il panorama italiano attuale e quindi il più recente e molto amato è stato Invernale di Dario Voltolini, e poi seguo tutte le uscite di Rosella Postorino, Emanuela Canepa e Teresa Ciabatti.
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- Cosa vorresti aver scritto tu?
R: tante cose. Ad esempio Cattedrale di Carver, ma sono sicura di dire una banalità, chi non vorrebbe!
Grazie ancora e arrivederci con il tuo prossimo lavoro.
Claudio Della Pietà