
Autore: Oliver Goldsmith
Data di pubbl.: 2018
Casa Editrice: Fazi editore
Genere: Letteratura inglese, Romanzo
Traduttore: Barbara Bartoletti
Pagine: 231
Prezzo: € 17,00
Torna in edizione italiana, grazie a Fazi editore, con la traduzione di Barbara Bartoletti, The Vicar of Wakefield, il più romanzo famoso di Oliver Goldsmith, pubblicato per la prima volta nel 1766. Il vicario fu un libro molto amato da Goethe e apprezzato da Alessandro Manzoni, che ne avrebbe tratto ispirazione per alcuni personaggi, e trame, de I Promessi sposi.
Oliver Goldsmith, irlandese di nascita, è ricordato come uomo e scrittore irrequieto. Figlio di un povero pastore anglicano, diplomatosi al Trinity College di Dublino, una volta fallito il tentativo di abbracciare la carriera ecclesiastica, abbandonati i successivi studi a Edimburgo e Leida, Goldsmith girò da nomade l’Europa, esercitando numerosi mestieri umili, come il suonatore di flauto, e riuscendo, forse, ad ottenere l’ambita laurea in medicina a Padova. Conobbe Samuel Johnson ed ebbe l’onore di essere accolto nel prestigioso circolo letterario londinese da lui fondato, The Club. Entusiasta delle Lettere persiane, prese a modello l’opera di Montesquieu per uno dei suoi primi lavori degni di nota, Citizen of the world. Unanimemente giudicato un capolavoro e annoverato tra i libri in lingua inglese più letti del diciottesimo secolo, Il vicario di Wakefield fu scritto dall’autore in condizione di miseria e in perdurante stato di ubriachezza. In esso, convergono molti motivi autobiografici.
Il protagonista del romanzo è un agiato vicario di campagna irlandese, marito di Deborah, una donna descritta dallo stesso parroco, narratore in prima persona delle vicende, come “una donna laboriosa e buona… Era in grado di leggere qualunque libro inglese che non contenesse un linguaggio troppo astruso, ma era insuperabile in fatto di sottaceti, conserve e arte culinaria”. Il vicario Primrose, sostenitore e teorico del primato della monogamia, ha sei figli, due maschi ben istruiti, due femmine in età da marito e altri due bambini piccoli. George, il primogenito, si innamora della bella figlia di un vicino prelato, Arabella Wilmot, ma alla vigilia delle nozze un inatteso disastro finanziario si abbatte sui Primrose. Il matrimonio salta, anche a causa delle intemperanze dialettiche del vicario, e l’intera famiglia è costretta a spostarsi in una zona rurale, più a buon mercato, alla mercé di un giovane padrone di casa lussurioso, dissoluto e crapulone, il signor Thornhill, nipote di un nobile gentiluomo, al contrario saggio, morigerato e integerrimo, secondo le opinioni della gente del contado.
Il vicario di Wakefield è un libro pervaso da bonaria ironia. Al prelato accade di tutto: un doppio rapimento perpetrato ai danni delle figlie vergini, prima Olivia e poi Sophia; il figlio George, da giovane di belle speranze si riduce a mestierante in una modesta compagnia teatrale itinerante; la nuova casa brucia per un misterioso incendio e causa la successiva esperienza della galera a seguito dell’impossibilità di pagare l’affitto. La caduta nel vortice della disperazione esistenziale è interrotta infine dall’entusiastica risalita, in una chiusura fiduciosa e ottimistica nei confronti delle virtù umane e delle leggi morali che reggono gli universali destini. Il romanzo, a tratti picaresco, è popolato di figure contrastanti: spesso celati dietro mascheramenti provvisori, emblematico il caso del benefattore Burchell, si agitano truffatori e truffati, ladri di mezza tacca e spiantati senza arte né parte, spacciatori di verità cosmogoniche e gaglioffi eccellenti. Siamo all’ombra della grande tradizione filosofica anglosassone, scozzese in particolare, fiorita nel Settecento: si scommette sull’esistenza di un moral sense, una comune nota di umanità riscontrabile nelle nostre coscienze da porre a fondamento delle architetture sociali.
Il vicario Primrose, dotato di pazienza biblica e illuminato da un’interiore tenacia, regala al lettore efficaci digressioni su temi ‘caldi’. È opportuno ricordarne almeno un paio. La prima entra nel cuore del classico dibattito sulle forme di governo ottimali e delle divisioni dei poteri, dei pesi e contrappesi da modulare all’interno di un sistema politico equilibrato. La sua difesa della monarchia, più che adesione piatta a un paradigma costituzionale conservatore, richiama i principi di equa ridistribuzione di risorse, capacità e opportunità. Chi difende a spada tratta la libertà, afferma il prelato, riducendola a valore nobile e astratto, fa il gioco delle opulente élites, di coloro che si possono permettere, attraverso rendite (allora soprattutto fondiarie, oggi potremmo dire finanziarie), di controllare le masse di sfruttati. Davanti a un quadro così fosco, quale soluzione migliore di un Re saggio e super partes, per temperare la tirannia della ricchezza? Senza contare l’implicito sovranismo (!) che tale sovrastruttura mentale, all’apparenza progressista e liberale, cova in seno.
Perciò io sono a favore della monarchia, darei la vita per la sacra monarchia; perché se c’è qualcosa di sacro fra gli uomini, questo deve essere il sovrano consacrato dal suo popolo e ogni diminuzione del suo potere in guerra o in pace è un’infrazione alle libertà reali dei suoi sudditi. Le parole libertà, patriottismo e Britanni hanno già fatto molto e si spera che i veri figli della libertà impediscano che facciano di più. Ai miei tempi ho conosciuto molti di quei pretesi paladini della libertà, tuttavia non ne ricordo alcuno che non fosse in cuor suo e nella sua famiglia un tiranno.
La seconda digressione affronta il tema, certo non passato di moda, della rieducazione dei condannati da parte dello Stato. Il vicario stende, appositamente per l’occasione, un’omelia intrisa di moralismo cristiano, da tenere ai suoi disincantati compagni di galera.
Quindi, invece delle attuali prigioni, in cui gli uomini sono o diventano dei delinquenti, che rinchiudono degli sventurati per aver commesso un crimine e poi li restituiscono, se riescono a sopravvivere, pronti a commetterne migliaia, dovremmo concepire, come in altre parti d’Europa, dei luoghi di penitenza e di isolamento, dove gli accusati possano essere assistiti da persone capaci di indurli al pentimento se sono colpevoli, o a nuove occasioni di virtù se innocenti.
Ne Il vicario di Wakefield, opera melodrammatica, scorrevole, imperniata su equivoci, scritta con un linguaggio sorprendentemente moderno, per nulla appesantita dai suoi duecentocinquanta anni di età, vince il sentimentalismo, da intendersi come fiducia riposta nella sfera dei sentimenti e delle emozioni, nell’ambito di un contesto sociale in profonda evoluzione. Il Settecento è il secolo in cui nasce la Morale, una sfera di elaborazione autonoma, sconosciuta agli antichi. Le vetuste pretese dell’aristocrazia si sfaldano, a favore di nuove tavole di valori, non sempre migliori delle precedenti. L’uomo deve contare sulle proprie risorse, dove ‘risorsa’ significa strumento e misura, ovvero tutto ciò che può essere arruolato nella comprensione e trasformazione della realtà. La religione del vicario è ormai proiettata, in una nazione stimolata dalla nascente verve politica post-assolutista, verso una conversione laica dei propri contenuti. Decoro, parsimonia, coraggio e forza d’animo sono le pietre angolari dell’agire del protagonista. Le sue prediche, inattuali, ingenue, calate in un mondo sfigurato dall’egoismo, colgono nel segno proprio perché surreali. Non ci sono né cavalieri né eroi in The Vicar of Wakefield. L’umorismo sfida il rocambolesco. L’umorismo trionfa.