Autore: Mihail Sebastian
Data di pubbl.: 2018
Casa Editrice: Fazi
Genere: Romanzo, romanzo -biografia
Traduttore: Maria Luisa Lombardo
Pagine: 278
Prezzo: € 17,00
Scrittore e intellettuale di formazione giuridica, avido lettore di Proust e di Gide, il rumeno Mihail Sebastian è stato un testimone d’eccezione dell’esplosione del razzismo, dell’antisemitismo e della violenza politica nell’Europa tra le due guerre. Figura controversa, Sebastian era al tempo stesso ebreo e collaboratore della rivista Cuvîntul diretta da Nae Ionescu, suo intimo amico, “maestro spirituale” e ideologo della destra nazionalista e antibolscevica. Da duemila anni, pubblicato in patria nel 1934, destò scandalo a causa della prefazione affidata dall’autore allo stesso Ionescu. In sostanza, un libro autobiografico dal contenuto antisionista ma sinceramente preoccupato dell’evoluzione politica interna (e internazionale) ostile agli ebrei, nella sua prima edizione è introdotto da un pamphlet antisemita, rigurgitante odio e livore. Sebastian fu preso di mira tanto dai fascisti ultranazionalisti quanto dagli esponenti della comunità ebraica. I primi gli imputavano la colpa di aver sollevato una questione tabù ancora “non risolta”, i secondi lo accusavano di aver esacerbato il clima politico-sociale già pessimo e tendente al becero.
In Da duemila anni, pubblicato dalla casa editrice Fazi con la traduzione di Maria Luisa Lombardo, Sebastian dà voce al suo alter ego, impersonato da un giovane studente universitario, ebreo, coinvolto suo malgrado negli scontri di metà Anni Venti che sconvolgono Bucarest e preparano il campo all’ascesa del movimento fascistoide delle Guardie di Ferro fondato da Codreanu. «Stamattina sono andato a lezione di Diritto romano. Nessuno mi ha detto nulla. Ho preso appunti febbrilmente, per non vedermi obbligato a sollevare la testa dal mio banco». Gli ebrei sono oggetto di continue violenze da parte della popolazione locale. Gli estremisti di destra, ragazzi borghesi, ottusi, banali (Sebastian non li descrive mai nei dettagli, come fossero un gregge indistinto), cercano di ostacolarne la presenza nelle aule universitarie. «A metà lezione, una carta appallottolata finisce sul mio banco, accanto a me. La ignoro, non l’apro. Qualcuno grida il mio nome da dietro. Non mi giro. Il compagno alla mia sinistra mi osserva attentamente, in silenzio. Non riesco a sopportare quello sguardo fisso e alzo gli occhi. “Fuori!”. Proferisce questa parola in modo brusco, tagliente». Ma chi sono gli ebrei? Corpi estranei alla nazione o autentici rumeni? L’ebreo è vittima degli altri o di se stesso? Contano di più le vicende storiche concrete o l’appartenenza a una stirpe bollata metafisicamente come tale? Il romanzo-diario di Sebastian ribolle di temi filosofici e teologici caldissimi, tuttora difficili da affrontare a cuor leggero.
Il protagonista sviluppa un’ammirazione particolare per il professor Ghiță Blidaru, antiliberale, antimoderno, vitalista, sostenitore del modello economico fisiocratico, affascinato dalla terra, dalle radici, nemico dell’astrazione e di ogni deriva cosmopolitica. Blidaru lo convince ad abbandonare la facoltà di legge e a diventare architetto. Il giovane ebreo, dopo la laurea, viene assunto nello studio di Mircea Vieru, chiamato da tutti “il maestro”, lineare, illuminista, progressista, “un cartesiano smarrito a Bucarest”. Il maestro è impegnato nella realizzazione di un’opera di grande impatto ambientale a Uioara, nella valle del fiume Urs. Una multinazionale gli commissiona la costruzione di un impianto petrolifero con conseguente espropriazione di terreni, spostamento di uomini e villaggi, conversione dei contadini in operai. L’effetto collaterale, preventivato, è il possibile avvelenamento dei floridi frutteti della zona.
Su questo terreno si consuma lo scontro tra Blidaru e Vieru, portato fin dentro le aule universitarie. «Laddove si agita una lotta fra un fatto di vita e un’astrazione, io mi schiero per la vita contro l’astrazione», afferma Blidaru; «la metafisica del professor Ghiță mi fa uscire dai gangheri. In una questione in cui sono in gioco così tanti fatti e cose concrete, soldi, pietre, petrolio, lavori di drenaggio, di canalizzazione e di costruzione, egli se ne viene fuori con dei problemi di coscienza. Io penso in chiave concreta, lui in chiave metafisica», ribatte Vieru. «Concreta, concreta!… Esiste una sola cosa concreta: l’uomo», contesta e specifica il professore. Già da queste battute si percepisce l’attualità del confronto dialettico affiorante nel romanzo-testimonianza di Sebastian. Centro contro periferia, interessi capitalistici globali contro difesa del territorio, numeri contro persone, esaltazione acritica della modernizzazione contro localismo bucolico facile preda del populismo.
Il protagonista si perde in notti inquiete, riempite da disquisizioni sui massimi sistemi e sul destino del popolo ebraico. La compagnia è composta da intellettualoidi di varia e confliggente estrazione. Il marxista S.T.Heim rimprovera gli altri di essere dei metafisici sconclusionati: «Come siete buffi, amici miei. La chiave di tutto per voi è altrove. Siete una generazione di proletari privi della coscienza di classe». Sami Winkler, sionista, contesta ad Heim l’incapacità di cogliere la specificità del dramma degli ebrei e di ridurre tutto al solito conflitto tra Capitale e Lavoro: «Non puoi chiedere a un popolo che è partito per edificare una nuova nazione di contare i soldi, di firmare una polizza d’assicurazione contro gli incidenti e di prenotare via telegrafo una stanza d’albergo». Stefan Pàrlea è il rivoluzionario che infiamma le bettole, finché il suo ardore demagogico decade ad attesa messianica di un qualsivoglia evento di rottura.
La posizione più sconvolgente, però, è espressa dal protagonista, antisionista e lontano dalle ideologie: «Vorrei potermi detestare violentemente, senza nessuna scusa, senza comprensione. Vorrei essere antisemita per cinque minuti e sentirmi un nemico che deve essere liquidato». Il ramo materno della sua famiglia esemplifica la tipologia dell’ebreo colto, assorbito dalle infinite dispute talmudiche «mentre i villaggi bruciavano, mentre il sangue sgorgava con veemenza come la lava ardente di un vulcano attivo». Parole che stigmatizzano l’impotenza nevrotica e il compiaciuto vittimismo del religioso puro, incapace di reagire alle ingiustizie subite in ogni tempo e in ogni luogo.
Nella parte finale del libro, ambientata negli Anni Trenta, il furore delle milizie infiamma la Romania. Grande amico di Mircea Eliade, Mihail Sebastian conobbe anche Emil Cioran ed Eugène Ionesco. Nella figura del maestro Vieru l’autore inquadra l’idealtipo dell’uomo di cultura, brillante, geniale, eppure attratto dal nazionalismo “identitario”: «Io non sono antisemita. Te l’ho già detto e lo ribadisco. Ma sono romeno. E, in questa veste, tutto ciò che mi si oppone rappresenta per me un pericolo. C’è uno spirito ebraico irritante da cui devo difendermi. Nella stampa, nella finanza, nell’esercito, dappertutto percepisco la sua oppressione. Se il nostro organismo statale fosse resistente, non mi importerebbe un granché. Ma non lo è. È peccaminoso, corruttibile e debole. Ed è per questo che devo lottare contro gli agenti della decomposizione». La metamorfosi di Vieru, da uomo illuminato a sostenitore di tesi filo-hitleriane, il diffuso disprezzo del capitalismo sempre sovrapposto all’odio verso l’ebreo, l’antisemitismo interpretato come disposizione naturale di un popolo… Da duemila anni è un romanzo in cui scorre la Storia del Novecento, fino a noi. La seconda guerra mondiale è appena terminata quando Sebastian muore, nemmeno quarantenne, investito da un camion.