Al Salone Internazionale del Libro di Torino abbiamo avuto il piacere di intervistare la scrittrice francese Maylis de Kerangal, autrice del romanzo Riparare i viventi (Feltrinelli), una storia commovente che ha avuto un enorme successo in Francia. Il libro racconta le diverse fasi di un trapianto di cuore, dal momento in cui il giovane Simon perde la vita in un incidente d’auto fino a quando il cuore rincomincia a battere nel petto di Claire, donna cinquantenne che ritrova così la speranza.
Perché ha scelto di parlare di trapianti e in particolar modo del cuore?
L’ho preso come stimolo perché porta in gioco sia il tema del corpo umano, sia quello del movimento implicato nel trapianto sia quello del mondo della metafisica e della tecnica. E’ un argomento straordinariamente completo. Mi ha anche permesso di elaborare un testo che avesse da un lato una dimensione epica e dall’altro una dimensione intima e poetica. E’ un romanzo che catalizza i temi della vita, della morte e dell’amore e quindi tutto l’essenziale della vita umana. Anche dal punto di vista della narrazione fra l’individuo e il gruppo il trapianto mette in luce tematiche importanti. Il cuore ha una doppia dimensione: una iper-tecnica (è un organo) e una simbolica (è il luogo della rappresentazione dei sentimenti dell’essere umano). Concentrandomi sul cuore mi sono concentrata sull’organo che dice molto sulla psiche umana, sulla nostra identità.
Il trapianto ha quindi anche un significato simbolico…
C’è una ragione di tipo simbolico che è nel movimento fra due corpi umani che vengono messi in relazione e risuonano insieme attraverso un gesto tecnico. Io ho vissuto il trapianto innanzitutto su questo piano.
In questo romanzo non c’è un vero protagonista e il trapianto sembra un lavoro di squadra. E’ davvero così?
Sì, non ci sono protagonisti principali, non c’è l’eroe del romanzo tipico della letteratura francese del XIX secolo. L’azione del trapianto costituisce una catena di solidarietà e quindi un lavoro di squadra. Non c’è un protagonista vero se non il cuore, di cui si vogliono seguire le vicende, ed è il trapianto che va a costituire una collettività.
Com’è riuscita a trasmettere al lettore la profonda delicatezza con cui racconta questa storia triste? Come ha fatto a renderle così efficaci?
Ho tentato di restare molto vicina alla superficie della realtà. La mia scrittura accompagna il processo del trapianto nel suo sviluppo. Non ho mai tentato di elevarmi al di sopra del tema o dell’argomento e ho cercato sempre di “volare basso” per tenere un contatto con l’azione. La costruzione è semplice e segue un protocollo medico: non ho voluto salire in cattedra per spiegarlo. Spero che i lettori percepiscano la mia empatia nei confronti dei personaggi, della lingua, della storia ma anche l’empatia fra gli stessi personaggi. Tutta questa delicatezza è il risultato di una trasmissione semplice se viene ricevuta con lo stesso grado di empatia con cui io l’ho scritta.
Che cos’è davvero il cuore?
Non riesco a prescindere dalla doppia dimensione del cuore per rispondere a questa domanda. Non lo riesco a vedere solo come un motore fisico, per me è anche un contenitore che si riempie di storia.
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