In una stanza affacciata sui quartieri ridisegnati della nuova Milano, nella commistione tra vecchi e nuovi grattacieli che ricordano la copertina del romanzo, l’incontro con Antonio Moresco assume un valore quasi esplorativo di un’inquietudine che attraversa l’euforia per questi spazi sospesi.
Il suo nuovo libro, intitolato “L’addio”, edito da Giunti, rappresenta a sorpresa una continuità con il precedente “Gli increati” (terzo volume della sua trilogia) tocca i temi a lui cari prendendo per il collo la narrativa di genere e torcendolo a suo piacimento. E’ un romanzo metafisico e d’azione in cui ci sono mondi paralleli, bambini, sofferenze e tanta violenza. I due protagonisti sono eroi fragili e solitari: un poliziotto che si è lasciato alle spalle le speranze e un bambino muto, ma capace di guardare e vedere nel futuro e nell’abisso.
Cosa ha fatto scattare in lei l’idea per questo romanzo?
Stavo camminando in Sardegna e ho visualizzato un’immagine che sarebbe diventata la scintilla creativa: quella di una città dove c’erano dei bambini che cantavano.
Quando aveva presentato “Gli increati” aveva detto che non sarebbe tornato su questi temi.
C’è da dire che io non sono padrone in casa mia: a volte mi metto in testa di scrivere una cosa, ma poi vengo violentato e costretto a non abbandonarmi. Dopo quel libro pensavo veramente e sinceramente che avrei taciuto per diversi anni, poi evidentemente avevo dentro di me un tumulto che, come accade sempre in uno scrittore, si trasforma in idea, poi in narrazione e diventa dicibile.
Per quanto riguarda la mia riflessione sulla vita e sulla morte penso che la conclusione de “Gli increati” sia insuperabile, un limite oltre il quale non si può andare, perché verrebbe meno tutto ciò che si è detto.
Infatti in questo nuovo libro si parte da prima: il protagonista, lo sbirro D’Arco, non sa niente e comincia a capire qualcosa piano piano, ma all’inizio è chiuso in una cecità profonda. Questo è l’unico modo che ho trovato per scrivere ancora.
Il libro è presentato anche come poliziesco, ma in realtà stravolge la letteratura di genere. Che rapporto ha lei con quest’ultima?
Già in passato ho introdotto nei miei libri lunghe parti di azione e ho un grande amore per la letteratura di genere. In “Canti del caos” ho fatto un lungo panegirico di Salgari, da cui ho imparato a leggere di nascosto quando ero in seminario.
Ho sempre amato questi libri, in cui gli eroi protagonisti sono gli eredi degli antichi cavalieri erranti, che dovrebbero contrastare il male riparare i torti e ricercare la giustizia.
Ho avuto bisogno di entrare dentro in un personaggio forzandolo, estremizzandolo e come attraverso un avatar esprimere come mi sentivo io nei confronti del mondo.
Perché la scelta di far soccombere i bambini?
Alcune volte si ha l’impressione che il male domini quasi totalmente le logiche del mondo: di questo volevo parlare. Allora quale crimine è più abbietto, più inaccettabile di quello perpetrato contro i bambini? Se ho bisogno come scrittore di incarnarmi lo faccio nella figura del poliziotto che va a testa bassa ma anche nel bambino martirizzato. Il bambino è più misterioso di un adulto, perché è potenziale, è un enigma. E’ più vicino al discrimine, a ciò che separa la vita dalla non vita.
Il linguaggio che utilizza è evocativo e al tempo stesso crudo.
Ho bisogno di un linguaggio teso, a me non interessa il tessuto inerte. A volte le parole vengono usate a scopo connotativo, per mandare avanti la storia. Io ho bisogno invece che siano “tutto muscolo”. Per fare questo attingo anche all’unica lingua straniera che conosco, il dialetto mantovano, che è la lingua che ho sentito parlare da quando sono piccolo.
La ferocia della nostra società sembra alla fine essere il tema portante di questa storia.
In effetti ho questa preoccupazione profonda: i rapporti umani sono diventati abbietti. Anche il male ha una verità da dire e il messaggio alla nostra società è chiaro: “Voi credete di fare qualcosa di diverso, ma state divorando le condizioni di vita per i bambini che ci saranno dopo di voi”. E’ attualità: ogni anno le ricerche ci dicono che stiamo mangiando le risorse delle generazioni future e questo passa come se fosse una cosa normale e non un crimine inimmaginabile. Attraverso quel mattatoio con cui presento il mondo non penso di dire una cosa presa per i capelli o per il gusto dell’horror: cerco piuttosto di mettere davanti allo specchio i nostri modelli di vita. Noi siamo sotto la cappa di un’idea totalitaria che vede l’economia come unica dimensione della vita e non è mai successo in passato. Questo porta alla mancanza di scrupoli in nome della legge della ricchezza, di quella che Dante nel “De Monarchia” chiamava cupidigia. Stiamo mangiando il pianeta e le condizioni stesse di vita: la nostra è una storia dura, feroce.
In questa situazione il bambino sembra essere simbolicamente muto e si esprime con parole scritte sui muri. Qual è la funzione del dire o dello stare in silenzio?
Ho usato le parole tracciate dalla mia mano riprodotte sulle pagine per uscire dalla gabbia del linguaggio. Mi sembrava che quelle parole dovessero emergere con un’evidenza diversa e per dargli maggior significato e forza volevo essere io a scriverle. Per dire di più devi dire di meno, per aumentare devi sottrarre e allora porre al centro un personaggio muto che si esprime rompendo la gabbia del linguaggio comunicativo e facendolo sbalzare mi sembrava la soluzione più adatta. E’ un tema a cui tengo molto: diversi anni fa ho scritto uno spettacolo teatrale su Santa Teresa di Lisieux che ho fatto esprimere solo con il mutismo e il sangue. In questo libro succede un po’ la stessa cosa: il bambino parla nel sogno e solo alla fine si può sentire la sua voce.
Nel suo libro ci sono molti riferimenti alla letteratura classica. Quale ruolo le attribuisce?
Ho l’illusione che la letteratura possa raggiungere le persone con argomenti che non vengono trasmessi più in nessun altro modo. Occorre trovare delle fessure da cui penetrare perché siamo in un’epoca di profonda chiusura, nonostante tutto sembri spalancato davanti a noi. La desertificazione del pensiero non si attua solo cancellando, ma anche scrivendo tante cose contraddittorie una sopra l’altra.
A quali scrittori è più legato?
Tra i miei scrittori più amati ci sono Melville, Omero, Dostojevskij, Kafka, ma soprattutto Leopardi, che mi ha lasciato una traccia sentimentale mentre vivevo una condizione personale molto difficile. Negli anni dell’adolescenza ho avuto l’impressione di aver incontrato un fratello e quando morirò quel libricino dei “Canti” che da allora porto sempre con me voglio sia bruciato nella mia tasca.
Cosa pensa del Premio Strega, a cui è candidato?
Io sono presente perché mi è stato chiesto da Antonio Franchini, per cui ho stima affetto. Ha creduto in me anche quando ero quasi in mezzo alla strada come scrittore e mi ha consentito di tornare alla pubblicazione con una grande casa editrice, la Mondadori. Il nostro è un rapporto fatto di poche parole, ma di molta sostanza. Detto questo il Premio non mi crea alcun problema, non sono con la bava alla bocca, non farò cose ignobili e non dirò nulla in discredito di altri concorrenti, ma mi piace la natura “moschettieresca” che ha questa competizione!