A tu per tu con… Giuseppe Naretto

Abbiamo intervistato lo scrittore torinese Giuseppe Naretto, che nei suoi libri ha trasposto anche aspetti del suo lavoro di medico rianimatore. Quest’anno è uscito il suo nuovo romanzo “L’orizzonte capovolto” per Ponte alle Grazie.

È tornato Massimo Dighera in una nuova avventura, questa volta però è dalla parte del paziente e non del medico, come mai questa scelta?

Sicuramente perché nel mio libro “Notti di guardia” mi sembrava di aver affrontato molti temi visti solo dalla parte del medico. Avevo paura di ripetermi e di aver detto già molto, per questo volevo vedere i fatti dal punto di vista del paziente. Questo punto di vista l’ho sperimentato quasi direttamente e questo mi ha dato tantissimi spunti di riflessione: sono partito dalla storia vera di un mio collega che ha avuto un incidente per modificare la visione dei fatti nel mio romanzo.

Come mai ha deciso di trasferire l’ambientazione della narrazione in montagna, a Macugnaga?

Questo perché mi sembrava importante dare più movimento ai personaggi e arricchire la storia al di fuori dell’ospedale, pur lasciandolo come punto di partenza. Gli eventi importanti che avvengono in ospedale hanno comunque un legame molto stretto con quello che avviene poi fuori. Quello che noi sperimentiamo continuamente, pur senza rendercene conto, è che i nostri pazienti vengono da molto lontano, anche se noi li conosciamo solo all’interno dell’ospedale.

Questo suo secondo lavoro risulta più frizzante e avventuroso del primo libro, si è migliorato ulteriormente?

Ho cercato di fare tesoro di tutti i commenti che mi hanno fatto per “Notti di guardia” e, per questo, mi sembrava importante mettermi alla prova in questo senso, provando a uscire dall’ospedale, pur facendomi un po’ paura. In “Notti di guardia” mi sentivo a casa perché parlavo di ambienti che conosco bene, mentre così mi sono dovuto mettere alla prova: ho deciso per la montagna perché è un paesaggio che a me è molto caro: ci abito vicino e ho passato molto tempo lì. Ho anche passato un periodo a leggere molto sulla montagna, per capire come rendere frizzante e raccontare al meglio il paesaggio.

Le piacerebbe vivere le avventure del suo protagonista? Le capitano mai casi simili, visto che anche lei è medico?

In effetti sì: quando scrivi una storia hai la sensazione di immedesimarti e tendi a creare una situazione cercando di farla andare come secondo te dovrebbe andare. È una sensazione molto strana: a volte parto da un fatto che mi è capitato e provo a raccontarlo come se potessi scegliere io la trama. Un’altra cosa che mi capita è raccontare una cosa come è realmente accaduta per poi accorgermi, mentre la racconto, di cosa era veramente importante e forte in quel momento, come alcuni particolari, la luce o anche l’orario. Il mio personaggio non è un alter ego, ma una parte di me che rivive quelle situazioni, ancora meglio se possibile, perché si accorge di molti più particolari.

Se dovesse descrivere punti di forza e di debolezza del suo personaggio, cosa direbbe di lui?

Il suo punto di forza è sicuramente la sua inquietudine, che però allo stesso tempo si traduce anche in una sua debolezza: lui sente spesso il bisogno di conoscere, di indagare e di scoprire le verità nascoste, ma sente questa necessità anche nelle sue vicende personali e spesso questo bisogno lo porta a complicare la sua vita. La mia idea è che lui sia una specie di Ulisse, che vuole sempre tornare a casa, ma che alla fine non riesce mai a farlo.

Perché essere stati uniti nella sofferenza è un vincolo ancora più grande di qualsiasi altro legame. E’ così?

Io credo che il vivere delle esperienze molto drammatiche in qualche modo crei un legame inscindibile. La sensazione è che l’aver trascorso insieme lo stesso dolore ti porti in qualche modo ad avere un legame incancellabile. Non è come un sentimento d’amore o di amicizia che si può perdere, il dolore è un legame indistruttibile, e questo rappresenta sia un bene che un male. Io credo che poi le persone mettano in atto meccanismi di comportamento per cercare di tornare a stare bene, ma alla fine quel sentimento rimane sempre vivo.

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