
Data di pubbl.: 2023
Pagine: 89
Prezzo: €12,00
Martin Heidegger sostiene che la poesia vera e propria non è mai solo una forma più elevata del linguaggio quotidiano. Casomai è il contrario: il linguaggio quotidiano è una poesia dimenticata e quindi consunta, da cui a stento riecheggia un richiamo.
Alla poesia come madrelingua del genere umano si rivolge Clery Celeste con il suo nuovo libro dal titolo emblematico: salvare il necessario.
La poetessa con una sconvolgente aderenza al vero (cioè chiamando le cose con il proprio nome) entra nelle stanze della vita quotidiana e con la sua poesia scortica e scava tra le pieghe di una condizione umana che è sempre più carica di precarietà.
In quattro movimenti e un controcanto finale Celeste, con l’essenzialità di una parola poetica sempre antiretorica e priva di orpelli, inchioda l’esistenza alla pagina, smascherando l’inganno, mettendo le nostre vite davanti a una nudità sconcertante e spiazzante.
«Siamo disabitati da noi stessi / stesi sul pavimento ci cerchiamo / nudi e sterili nel nostro unico / modo impreciso di esistere.»; «Ci aspettavano giorni feriti / dove tutto si allaga / non sappiamo dove andare / se oltre al fango esiste ancora / un suolo su cui stremare».
Le parole nella poesia di Clery Celeste sgorgano dai crolli di quel modo impreciso di esistere che inchioda ogni forma vivente alla sua finitezza («Senti la struttura come crolla / il suono di polvere e vento / che fa macerie delle cose distrutte, / delle vertebre infrante»).
Con il ferro nella bocca la poetessa suona l’allarme, fiuta il pericolo nell’aria in cui si respira una libertà elettrica che equivale alla disfatta.
Salvare il necessario porta allo scoperto tutta la grande irrequietezza che abbiamo nel sangue, scava nella carne viva del nostro quotidiano smarrimento, smaschera la nostra abissale caduta nel tempo, facendo sentire la deflagrazione delle ossa e i suo schianto finale.
«Nelle sere del disagio / ti sento che hai nel fiato / quell’odore di bestia / che bracca la volpe. / L’acchiappi da dietro, un volo secco / da cane che sa / che la stagione delle piogge / si allontana, che deve fare scorta / perché l’amore fa troppo male / ci rende deboli / portatori di semi».
Tra atmosfere claustrofobiche, la paura che dilaga e lo straniamento che si diffonde nelle relazioni umane provocando nelle coscienze crateri di vuoto e assenza, Clery Celeste con la sua poesia tessa una tela in cui al disincanto affianca una lucida visione del reale che prima di tutti è sano pessimismo a occhi aperti.
La poetessa, in stato di vigilanza sulle cose del mondo, si mette in cerca di altre dimensioni della parola, sconfina nell’indicibile. Ed è proprio in questa parte metafisica di mondo che cerca disperatamente con la sua poesia (con cui tenta di dare senso e passione alle cose insensate) di salvare il necessario mentre il vuoto e troppo vasto intorno a noi.