Nel mio lavoro di psicoterapeuta l’ho incontrato tante volte, ma è solo di recente che ho compreso che il fenomeno vale per l’intera esistenza umana e ne ho fatto oggetto di narrazione (“Un conto aperto con la morte”, Garzanti 2014).
Il punto non è la fine – che sappiamo essere un evento ineluttabile – ma il fatto di sapere quando essa si verificherà.
Nella psicoanalisi cosiddetta classica non si fissa alcun termine al trattamento. Poi, a un certo punto, terapeuta e paziente di comune accordo fissano una data di chiusura. Da quell’istante tutto cambia: il centro dell’attività mentale diventa l’elaborazione della conclusione del rapporto. Se il termine viene stabilito all’inizio del trattamento − si tratti di settimane mesi o anni − il tema della fine risulterà costantemente presente.
Lo stesso vale per la vita: si nasce e non si sa quando si morirà. Se tuttavia, per qualche ragione, si viene in possesso di questa fatale (è il caso di chiamarla così) informazione, tutto muta prospettiva e l’effetto più macroscopico è il collasso del tempo: passato, presente e futuro vengono risucchiati in un imbuto e diventano un unico, indistinto grumo cementato da un sentimento di scacco.
L’idea che prevale è quella che manchi il tempo. Il tempo per cosa? La risposta è apparentemente semplice: il tempo per vivere. L’anticipazione cosciente della fine ci sottrae non solo il futuro, ma anche il presente. Jean-Claude Izzo sosteneva che «senza il futuro il presente è solo disordine». E lo scrittore libanese Amin Maalouf scrive: «Della scomparsa del passato ci si consola facilmente. È dalla sparizione del futuro che non ci si riprende».
Ma anche il passato, per quanto già vissuto, non è indenne da tale scacco.
«Lo so che il passato non si cambia. Ma è tutto quello che lasciamo a coloro che rimangono», afferma il protagonista del mio romanzo, attanagliato dall’angoscia che gli manchi il tempo di riparare agli errori commessi nella sua vita spericolata.
Il fatto è che l’esistenza umana è nutrita da una costante ricerca di senso. Questo non gli è conferito soltanto dalle idee e dai progetti, ma anche dalle relazioni e dagli affetti.
I greci ritenevano che a decidere delle nostre vite, prima dei capricci degli dei, fosse il fato. Le tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide raccontano mirabilmente il dramma dell’eroe – anche quando si tratti di un semidio – di fronte all’ineluttabile disegno del destino. Il paradosso consiste nel fatto che il destino (che dopo Freud chiamiamo inconscio e coazione a ripetere) costituisce anche la trama di senso dell’esistenza: la letteratura dell’Otto-Novecento sta lì a testimoniare che la tragedia dell’uomo moderno si riassume nella lotta contro il fato.
Sapere in anticipo l’ora della fine equivale a riconoscere l’esito compiuto di tale lotta, quando il significato dell’esistenza non sarà più modificabile. Una condizione dolorosa e difficilmente sostenibile. Perciò la profetessa Cassandra, che possedeva tale facoltà, era condannata a non essere creduta.
In proposito ricordo uno dei film che più ho amato: Blade Runner di Ridley Scott. I replicanti a cui il detective Deckard dà la caccia sono androidi programmati dagli scienziati con una “data di scadenza”. Egli comincia a guardarli con occhi diversi e a nutrire per essi simpatia, pietà e perfino amore, quando scopre che stanno lottando contro questa sorta di maledizione. Cioè quando capisce che la loro sorte è identica a quella degli esseri umani.
Bruno Morchio è uno scrittore e psicologo italiano. Dopo la laurea in Lettere esordisce nel mondo della letteratura nel 1999 con “Maccaia”, che propone alle Case Editrici Einaudi e Sellerio e presenta al Premio Tedeschi di Mondadori, non riuscendo però a trovare un editore. Dal 2000 scrive sotto la Casa Fratelli Frilli Editori, una piccola casa editrice genovese che si occupa di pubblicare libri noir ambientati in Liguria. Nel 2009 vince con Rossoamaro il Premio Azzeccagarbugli al romanzo poliziesco. Nel 2014 vince con Lo spaventapasseri il Premio Lomellina in giallo. Nel settembre 2014 esce per Garzanti Un conto aperto con la morte, nuova indagine di Bacci Pagano raccontata dall’alter-ego dell’autore, lo scrittore Gian Claudio Vasco.