L’ElzeMìro – Fablìole-Irenèide renitente

In apertura Nieces di Zoey Frank

Non voglio illustrare orsetti e animaletti e puntini perfetti e sederini e cioccolatini… oh oh santo cielo quanto odio gli etti e gli ini a cominciare da quella parola iniqua e odiosa (pausa senza misericordia) bambini
In coda a una stringa di j’accuse, su bambini Irenèide diete una pedata al freno della propria facondia, il fiato pronto a consumarsi tutto nel suonare il deguello di Maretta Barletta editor in chief della editrice Scaladór, le parole in bilico sulla punta della lingua pronte a piantarsi nel giustacuore dal compunto stile vonderlayen della editora in capo. Per alcuni istanti ciascuna delle due contendenti, l’esasperata Irenèide del 14° piano e la Maretta si confrontarono con occhiate che erano altrettanti ripetuti guanti dell’una in viso all’altra ma senza che né l’una né l’altra dessero il segno di avere incassato. La disfida continuava senza arretramenti ; come nel caso di quella tata di sua madre e dei suoi fratelli lo zio e la zia, Irenèide lo ricordava nei momenti più terribili, tata che a furia di angherie e feroci rappresaglie intese educative contro i tre fratellini, dal maschio dei tre, dallo zio appunto, fu punita con terribile severità : il regazzino si appostò un giorno dietro lo stipite, il destro, di una porta buia, con stretto tra i denti incisivi un pennino d’acciaio di quelli che un tempo si usavano da intingerli nell’inchiostro per scrivere sulle pagine di ben ordinati quaderni neri ; si appostò il bimbo sagace e aspettò nell’ombra l’arrivo della tata punitiva, con sempre incoccati nell’arco delle mani un ceffone o una labbrata – per sadismo ideologico come la sergente di Pasqualino Settebellezze –. E la tata arrivò, vagava sul quel sugoso particolare Irenèide, e intravide la sua piccola vittima e non presagì la trappola : scoccò la labbrata di destro ma in luogo dei labbretti sì belli, del bambino incontrò l’affilata punta del pennino stretta tra gli incisivi e vi si conficcò di preciso tra i metacarpi (→ Treccani) dell’anulare e del medio sguick nell’arteria digitale palmare : grande fu lo zampillare di sangue umano ; con muti, repressi lài la perfida ritrasse la mano e un’ora dopo, in udienza dalla signora – così si usava chiamare un tempo le padrone o datrici di lavoro – con grande sollievo dei tre piccoli di casa la si licenziò. Il ricordo di Irenèide trascurava quasi sempre il dopo, se fosse o no sopravvenuta un’altra tata più o meno psicopatica.

Irenèide era illustratrice di mestiere e la sua abilità di professionista libera stava nel trasformare le pagine di ogni libro a lei affidato, in richiami o conferme o suggestioni per la vista più meno fantasiosa dei lettori o, per maggiore esattezza, degli acquirenti di libri per bambini e ragazzi. Da anni con le sue illustrazioni Irenèide faceva vendere libri disgraziati, pei quali altrimenti, come si evince forse dallo scazzo al principio di questa storia, meglio sarebbe stato prevedere un macero preventivo, ovvero, nel sentimento di Irenèide, evitare di pubblicarli ; se possibile non scriverli proprio. Il mestiere era faticoso, di quelli che andrebbero ascritti al ruolo dei logoranti, soprattutto per la mancansa di ignoransa dei committenti : questa scena notturna è troppo buia e questa bella addormentata è poco asiatica e cenerentola è troppo bianca e il lupo troppo cattivo e il cielo quando mai è verde e i prati viola no.

La signorina Irenèide de’**, era anziana, floricultrice nei limiti della sua loggetta lassù del 14° piano, e così grande lettrice già da piccina, prima che pittrice, da avere imparato l’abbiccì leggendo in casa e, prima che nella fossa comune della scuola provassero con metodica determinazione a seppellirle l’entusiasmo di quelle belle cose scritte da alcuni a far ricca  la vita della mente di ognuno – lo avesse voluto –, era cresciuta a pane e Simbad ed era di quelle persone di carattere, si dice così, capaci di transitare nel tempo moderno, qualsiasi cosa moderno volesse significare, mantenendosi salde nel proprio ; e se non proprio al suo timone, fatto piuttosto difficile da realizzare, almeno al sicuro in una scialuppa di salvataggio. Ora sì ora no e con estrema sprezzo dell’inattualità, Irenèide indossava complementi di vestiario appartenuti a epoche diverse dall’attuale, per esempio certi cappellini appartenuti a sua madre e girava quasi sempre con un ombrello, portatile questo sì nella sua bella borsa nera per tutte le stagioni in cui guardava sempre un blocco da disegno e matite, i documenti per la sua commercialista che accumulava nella borsa per tema di perderli in qualche cassetto in casa, un passaporto scaduto, sigarette Camel e diversi accendini (quest’ultimo dettaglio un editor negazionista lo taglierà o taglierebbe). Era Irenèide una di quelle creature d’altri tempi, ti chiederai tu, e sì sarebbe la risposta, sì sì, creature che sanno stare al passo coi tempi senza inciampare e soprattutto senza nemmeno imitarne quel tipo di passo detto dell’oca. Una creatura cui la polvere dei secoli – Irenèide de’** apparteneva a un famiglione aristocratico che aveva impiegato meno di cento anni a dissipare l’enorme fortuna accumulata dagli avi nei cinquecento anni precedenti, tutta gente di carattere dunque – ebbene cui quella polvere non pesava sulle spalle, anzi si scrollava da sé.

Irenèide all’improvviso si sciolse dall’immobilità, nascose di nuovo i denti sotto il rossetto e ritrasse gli artigli ; poi con la placidezza coerente col proprio nome e grado aggiunse a conclusione, Vedi che quella psicotica arricchita della Principessa cui fate… lasciate scrivere idiozie… santo cielo anche i libri senza parole lei… che le frasi non le piacciono con molti INCISIVI… stolta… insomma quando scrivesse storie plausibili e non stupidate su mammine-care e bambini-adorati … non sono più in grado di illustrare storielle per cui non solo Andersen, Perrault e Capuana ma la stessa Fata Turchina e Walt Disney sarebbero disposti a risorgere per seccarla ma proprio bam bam bam… tre colpi in testa perché prima di incontrare materia grigia i proiettili vedi che sfrecciano nel vuoto ; ciò detto prese come si usa dire la porta Irenèide, ma non la portò via, la spalancò con furia facendo sobbalzare i pennellini con cui non poche segretarie stavano, con grande diligenza, tingendosi le unghie delle mani, si fermò e urlò senza voltarsi, E la sintassi… guardate la sintassi e la prosodìa di chi volete pubblicare…  Qui mise un punto fermo alla propria indignazione e si allontanò verso le porte dell’ascensore.

Il carattere di Irenèide e le conseguenze della caduta della sua famiglia, l’hanno portata a vivere nel suo bilocale stretto, non un metro quadrato di troppo tra piante e libri e colori Ecoline con cui insiste ancora a dipingere le sue tavole per bimbi che, è bene ripeterlo, sono quelle che fanno vendere i libri della Scaladór e di altre case tutte ricche delle stesse storie che l’intelligenza di un calamaro ripudierebbe : invece che di sirenette e streghe dai forzieri ricolmi e soldati e re nudi e spose inconsapevoli di orchi efferati, nada de nada, tutte un tripudio di mamme-proiezione delle scriventi col cordone ombelicale ancora attaccato  a sé stesse. La scrivitura per l’infanzia è loro appannaggio. Del resto madri e figli sono legati da quel malinteso.
Domanderai però in che cosa consiste il lavoro di illustrare un libro inteso per l’infanzia ma che in genere, nei suoi esempi preclari, di infantile non ha nulla ma proprio nulla; ebbene potresti risponderti che consiste nel lasciare che le parole vibrino nell’immaginazione perché escano dalla caverna dei concetti o del vocabolario e ne  guìzzino in forma di immagine – lo maggior corno de la fiamma antica/cominciò a crollarsi mormorando/pur come quella cui vento affatica – così ché alle parole risponda  un vento di pennello entro il ristretto orizzonte di un foglio di carta. Ad illustrare i libri sono molti, distribuiti con equità per genere. Per tutti gli illustratori vige la pena di faticare con paghe esigue su storie come s’è cercato di farti intendere.

La citata regina dei narratori infami, Clotilde Principessa, vive non lontano dal condominio di Irenèide, ma in una villa ch’ella ha ristrutturato perché ricordasse una carrozza da Cenerentola benché ella prediliga il piede nudo alla scarpina di vetro. Una donna baciata dal successo – oh oh e ha vinto premi e toccato anche i cuori di molte adulte in formazione con romanzi adatti alla loro pompa aspirante-premente e pure adattata per netflix – e pertanto baciata ai piedi da ogni casa editrice, oltre la principale, la Scaladór, colosso di cui è uno dei due piedi e capace di sfornare in un anno un centinaio di librini per bambini e un po’ men che bambini, più di quanti ne scrisse Andersen in tutta la sua vita. Ma vabbè. La Principessa vive in questa villa, fuma anche lei ma lunghe sigarette dalla carta colorata che compra nello Schwitzenland al kiosk appena oltre ogni barriera di confine. Veste di velluti stampati molli e brillanti di colori, mantiene una capigliatura non governata dalle forbici di un parrucchiere e, poiché ormai da tempo è  avviata sul viale della menopausa, lei non la capigliatura, guarda il mondo con lo sguardo appunto del folle schizofrenico ; a un altro mondo destinato. Vede un albero ma non sa di che si tratta, così, alla stregua di un donchisciotte periferico, conclude che non di albero o palo del telegrafo  che non  di occhiuto semaforo si tratta ma di mostro o cavaliere anemico e nemico, aiutata in ciò da’ suoi occhi prominenti, non di fatto esoftalmici ma nati con l’intenzione di uscire dalle orbite in cerca di mondi metafisici. Il librino che Irenèide si era rifiutata di illustrare era suo.

Bene. Accadde così che Irenèide decise di invescare la Principessa in una pania mortale. Quale ti domanderai ma si sta per risponderti. Prese ad inviarle  giorno dopo giorno lettere piene di encomi e ammirazione per i suoi vasini da notte da svuotare e che, Sa principessa – attribuire a chicchessia un titolo che non gli spetta gonfia l’ego di chi gli scrive e nello stesso tempo quello di chi legge che nel nuovo ruolo, ingegnere, monsignore, eccellenza, generale, prende subito a immaginarsi ; Sa i miei nipotini mai avrebbero imparato a non farsela addosso senza quei maravigliosi (sic)inviti a non pisciare fuori dal vaso ; questa l’intenzione di carattere del pensiero, che Irenèide mitigò però nella scrittura con il più inclusivo non fare pipì. Non è il caso di stare a dire troppo, ti basti sapere che subissò la scrittrice di lettere così dense di melata, di aromi asiatici che quella, ridotta ad ape stordita non potè non fissare alla mittente Irenèide un appuntamento per un tè, tra amiche, scrisse nel biglietto di invito denso di svoli barocchi della sua calligrafia stilografica. La risposta per accettazione di Irenèide fu rapida e inflessibile quanto l’ago di un’iniezione fatta con fermezza da una caposala e arrivò a destinazione con una rapidità che lusingò per sopramercato la Principessa. Nel giorno e nell’ora stabilita Irenèide suonò al citofono ; sulla targhetta vide scritto Cene Rèntola, nome e cognome adatti a sviare gli eventuali allocchi intesi a rapinarle copie autografate dei suoi libri. Le fu aperto e da subito Irenèide ebbe contezza che il suo piano micidiale sarebbe andato a buon fine. Principessa le si presentò in cima alla breve scalinata di ingresso alla villa in un fulgore di velluti, più che vaporosi, tali da sembrare profumi che le fossero stati spruzzati addosso per poi trasformarsi in abito. Entrarono in casa. Ti trascuro i dati sull’arredamento ma immaginatelo. Immagina il troppo del tanto e il tanto di troppo. Immaginati le tende, le passamanerie, le librerie appostate dovunque al piano terra, il piano di ricevimento, a significare ad eventuali ospiti il sapere della loro ostessa. Il tè era pronto su un tavolino da servito condito a latere con una crostata alla frutta, frutti di bosco per l’esattezza, piattini, forchettine, coltellini cucchiaini, la zuccheriera caricata a zucchero marrone ; equatoriale si capisce. E cominciò la tertùlia mortale. Irenèide studiava la situazione e per fortuna la fortuna le si accomodò accanto spinta dalla stassa antipatia che lei provava ma all’ennesima potenza per la Principessa e le suggerì il da farsi. Appena quella, la Principessa, chiese scusa per andare a prendere altra acqua per il tè ( o a spander acqua nel retrè) Irenèide ratta ratta, da una fiala fatta sgusciaere dalla sua borsa, versò un rapido liquido velenoso nella tazza lasciata a mezzo della Principessa. Questa tornò, posò la teiera rifornita e  senza battere ciglio in una sola sorsata svuotò subito quella tazza, Ohccome mè ussito amarissimo quèsto téé. Irenèide sorrise e non sorrise e dopo un po’ tuttavia la Principessa lo batté e ribatté, il ciglio, strabuzzò, gorgogliò e morì : Hyoscyamus niger= Giùsquiamo. Irenèide tornò al condominio certa di avere compiuto un’opera di carità verso una generazione di senza peccato ; gli stessi che non amava, ma di cui rispettava, si capisce, il loro essere creature, cioè in corso d’opera. Come un’ illustrazione.

Schermata 2017-05-09 alle 10.56.35

In apertura Nieces di Zoey Frank

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Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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