L’ElzeMìro – Animali in disordine alfabetico-Carnivori

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                                                                                                     Carlos Mensa-Tribute to De Chirico 

Nella fantasia popolare, ripete il narratore per la terza, e rassicura ultima volta, perché più di così cosa vuoi narrare e dire, parlando di animali si dice di una frattura provocata ad arte, per mantenere al meglio l’equivoco su chi domina il pianeta e che il pianeta sia lì da  dominare, tutti leopoldi e vittorie regine;  ogni cosmogonia è stata inventata da esseri incapaci di trovarne riscontri all’autentico col dirndl del calcolo differenziale, sicché leggende posticce, ignari che a dominarli, a essere cibo per predatori maggiori macché; tutto soggiace all’impero di entità, come chiamarle, anche meno che piccole, vie di mezzo tra muscoli valvole e sassi, spesso capaci solo di vita parassita o di una propria incapaci ma in grado di assassinarne l’altrui, del resto c’è una medusa in Australia, la Chironex fleckeri o box-jellyfish, philum cnidaria, classe cubozooa, grande come un cappelino e con tentacoli di qualche metro, uccide in due o tre minuti, arresto cardiaco, jelly jelly sissì. È il virus o il batterio infine a dettare la legge su qualsiasi pianeta, guardate gli astronauti, cercano mica velli d’oro o scimmie o giraffe su Marti e Titani, cercano, anzi sono certi e timorosi di trovare semoventi particole o protozoi o spermi in silicio, capaci magari di incistarsi in una biologia e di pietrificarla poco a poco e del tutto, farla golem silente per sempre, assumendo il dominio della materia, aggeggi più potenti dei plasmòdi falcìpari, di pallide spirochéte, giàrdie e trycomóni, dei coronavirus, del mycobacterium tubercolosis, necrosi caseosa e fischia, buchi, fino a che un soffio di vento, altro che un alito d’aleph, bouf, in cenere senza crematorio, così attenti, attenti a star chiusi negli scafandri i cavalieri del cosmico girotondo, con la speranza che nessun aggeggio più piccolo ancora del più piccolo qui sul pianeta azzurro, dappertutto passi delle tute i sigilli, guarnizioni, siliconi, filtri, tubi e maschere e si faccia respirare o passi per la pelle dritto dritto e te saluto ar bionte te saluto, addio missione spazio temporale. E ancora ripete, oh oh il narratore, che su tutto regna la verità dell’animale lugubre più del Chiù, femmina donna sì e no, domina che forse solo uno scrittore l’ha ben immaginata, il lusitano che per consolazione l’ha resa bella e appetibile in un mondo di qua, dove si scrive e si fa, ecco così che cosa ha rivelato il lusitano, che l’unica realtà, l’unica vera appunto se vuoi fare il filosofo da passeggiata a mare, l’unico animale perfetto perché invisibile è la Morte, la signora, la domina, la domitilla, chiamala come vuoi, è lei l’animale che ha in pugno il senso di ogni cosa, dead end la direzione s’intende, dice il narratore; ebbene per concludere questa conversazione e prima di sparire, parlerò dell’animale di cui si parla poco, dice, tanto lo si dà per scontato, il carnivoro; ne parlerò al presente storico, tempo che aiuta a tenere alla giusta distanza i fatti sì ma i fati di più assai.

Ecco allora un animale registrato Giuseppe dai genitori. Una, forse l’unica differenza tra bipedi e quadrupedi è che i primi hanno fabbricato l’anagrafe, infatti tra chiamare un bimbo Giuseppe, è il caso qui presente, e dire Camillo un cane o il gatto Filogamo è nulla; è un imposizione, presaga in entrambi i casi di ogni altro tipo d’imposizione, anche quella delle mani. Giuseppe nasce in ambiente agiato e lontano nel tempo in un luogo oscuro su un mare tenebroso, Varna, il porto della nave fantasma di Herzog; bene, Giuseppe, Benedetto, Elia di Lazzaro e Livia nasce in un tempo prossimo alla grande guerra di fango e d’acciaio, ha cinque anni Giuseppe, non è molto alto e mai lo diverrà, vede nell’orto la cuoca incarognita a chiappare una gallina che corre, corre, salta, sbatte le ali, il tran tran abituale delle galline; ora l’ha presa la cuoca, per i piedi la gallina, la scuote come si fa con i cuscini dalle finestre, l’impicca all’inferriata della cucina, la impicca a testa di sotto, poi gliel’afferra, quella testa, la povera vorrebbe beccarle le dita ma che vuoi fare contro una cuoca che ti guarda indifferente al richiamo dell’occhio sbarrato, il sinistro, quello del cuore che batte anche nelle galline; così con la punta di una forbice acuta da cuoca, la cuoca le buca l’orecchio sguish fino dentro al cervello e la gallina si scuote e poi erutta tutto il sangue che ha in corpo finché rimane un peso di piume, appeso in quella posizione; a terra, in una scodella tutto il sangue non più suo, altra destinazione e destino, senza sfondo. In tavola in pezzi passati in padella la gallina passa incontro agli sguardi lussuriosi dei commensali, la cuoca riceve i complimenti, la mamma di Giuseppe, la Livia adorata, così sempre a modo nei suoi abiti colti in giardino dai ciliegi, taglia con grazia la carne, il babbo Lazzaro e il fratello grande, tutti un elogio, tutti un succhiare, un manducare a più ganasce, a stantuffi, ma che differenza c’è coi lupi, pensa Giuseppe, che differenza. Giuseppe mangia tuttavia perché teme le reazioni punitive; alla mensa paterna, ai suoi tempi si mangia non per inclinazione ma pel dovere di rendere omaggio a chi che dall’oro del suo lavoro fa ogni giorno il miracolo di tutto quel cibo, e troppo; Giuseppe finisce la sua porzione della gallina, una coscia, poi, e sarà la rivelazione, chiede umilmente scusa, ha il permesso di levarsi da tavola, corre via, tra i sorrisi, come se avesse quello che si chiama bisognino, corre al gabinetto, il tempo di chiudersi e già la testa si scuote sulla tazza del bagno, all’inglese ovvero con rubinetti e vasca e con lo sciacquone, vomita tutto Giuseppe; della gallina osserva poi l’impiastro acido e sfatto, la mescola di pane, carne e pomodori che ora giace sul fondo della porcellana Ginori, Doccia-Firenze; pull in inglese la catenella e flush; Giuseppe ha una lingua per ogni azione, leggere ad esempio si fa in francese, le mani si lavano in italiano. Passa un certo tempo e a ogni nuovo stufato, arrosto, goulasch o brasato, paillard o canard, cervella o sanguinaccio, come un bisturi impugna il coltello, in apparenza senza battere ciglio, poi si ripete Giuseppe, chiede il permesso e via, pull flush flush flush; ciò finché arriva il bel giorno, in tavola esposto come un trofeo, il padre è cacciatore, riposa per sempre un fagiano dall’odore malato, più tardi da medico quell’odore sarà la sua compagnia, Giuseppe punge con la forchetta la carne speziata e disfatta, lo aggredisce l’odore nascosto, ne seziona la consistenza, per superare l’orrore ne mastica col pane e giù acqua, ma è consapevole della conferma, tutta la carne vomitata fino a quel tempo è quel  putridume, in greco si dice sfacelo, più rivoltante di un pus; e vomita, vomita non può trattenersi, vomita nel piatto e sulla tovaglia, sul tovagliolo; uno spruzzo schifoso tocca il bicchiere di cristallo cesellato di pampini e foglie di vite. 

Seguono predica e pianto, della mamma, del babbo soprattuto la predica che non tollera simili atti, segnali asserisce, di un carattere incline allo scarso carattere, alla tristezza, all’introspezione, alla fenomenologia della femmina in pectore; non sarà l’unico al mondo in quel tempo e nemmeno in questo ed è così, Giuseppe ama solo leggere, un biscottino proustino in corpo 9, predilige il profumo di Livia che lo bacia ogni sera e lo colma di attenzioni, di libri, baklàva, e di occhiate di intesa, questo benché dalla gallina in avanti Giuseppe non osi pensare alla mamma che si riempie di  morti e via nella tazza Ginori e giù negli intestini delle città, giù per fogne e canali lontano fino al mare di Varna. Allora nessuno pensa ai depuratori. Sfidandolo a picchiarlo, e preso coraggio per contrastarne l’autorità, Giuseppe, racconta al Lazzaro padre dei vomiti e del perché e dice, dichiara, asserisce che mai e poi mai never forever, niemals in tedesco che è una della lingue borghesi di quelle terre vicine alla Russia imperiale, niemals mehr (leggere niimals meer n.d.r.) in sé corpi di morti, è dei vivi che si prenderà cura, diverrà medico; Va bene, dice il babbo indifferente, Se carne non vuoi più mangiare io ti sistemo, e lo manda in collegio dai preti del collegio polacco, dove Giuseppe digiunerà per lo più, quasi a sfinirsi, rifiutando con determinazione stufati e minestre di maligna fattura con globi di grasso, o forse chissà, che vi nuotano dentro, preferendo il pane e l’acqua della punizione alla tenebra morta nella sua pancia; i preti dovranno desistere. E andrà avanti così, da medico, passata la guerra, la prima mondiale, cui per fortuna d’età sfuggirà e sfuggirà anche alla rovina della casa, alla morte del padre suicida ad Atene, giù da un balcone con tutta la carrozzina d’infermo, una natura morta dipinta in giardino da De Chirico o da Savinio. Giuseppe tasterà pance e sederi, senza mangiarne nessuno, visiterà bronchi in rovina, sempre accontentandosi di pane e pasta e pomodori e verza, uova, riso, fagioli e se ci sono formaggi e cavolo nero; anche durante la guerra seconda Giuseppe non vorrà saperne di gatti in salmì, di chi predica la sopravvivenza; detenuto giù nelle Calabrie nel campo di Ferramonti, coltiverà i suoi pomodori, per sé e i compagni, mangiando poco come i contadini ma con determinazione solo quei grappoli rossi e nel tempo, Giuseppe prenderà a sospettare di non essere cauto abbastanza, prenderà a indossare, dopo gli zoccoli, scarpe di tela e a tenersi i pantaloni in vita solo, dopo lo spago, con le bretelle, prenderà a non usare guanti di pelle, nemmeno con la neve e, non fosse che i batteri in aria non sono di preciso animali, indosserebbe come di certi indiani si dice, la mascherina, ma il riso lo monda in cerca di insettini e bachini infine, arrivato a un età in cui si rischia ogni giorno di raschiar il fondo di ogni cosa, Giuseppe finirà in ospedale per uno strano malanno, anemia o qualcosa, anemia macché è la diagnosi che si fa da sé, Dovrebbe mangiare mangiare, gli dice il primario, ma Giuseppe rifiuta, rifiuta il pensiero che il suo cibo sia contaminato da polli e conigli brasati nella stesso tegame dove il riso viene bollito. Morì di consunzione Giuseppe, poco per volta, niente peg e nemmeno un boccone di gallina.  

Ecco concluso così il grand tour nel labirinto del dire degli animali, che libera il racconto dalle ostruzioni implicite in quelli con uomini protagonisti forzati; nell’anatomia dei quali destreggiarsi ora tra il poco, ora tra il nulla, è dura fatica.

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Con ciò l’Elzemìro si congeda e si prende le ferie, tornerà il 15 settembre, morbo permettendo. Cari saluti e siate prudenti, lettori, ha da passa’ più che ‘na nuttata. 

Pasquale D'Ascola

P. E. G. D’Ascola Ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: Le rovine di Violetta, Idillio d’amore tra pastori, riscrittura quet’ultima della Beggar’s opera di John Gay, Auto sacramental e Il Circo delle fanciulle. Suoi due volumi di racconti, Bambino Arturo e I 25 racconti della signorina Conti, e i romanzi Cecchelin e Cyrano e Assedio ed Esilio, editato anche in spagnolo da Orizzonte atlantico. Sue anche due recenti sillogi liriche Funerali atipici e Ostensioni. Da molti anni scrive nella sezione L’ElzeMìro-Spazi di questa rivista  sezione nella quale da ultimo è apparsa la raccolta Dopomezzanotte ed è in corso di comparizione oggi, Mille+Infinito

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