Grandi riflessi – Pavese: La casa in collina

Cesare Pavese

Titolo: La casa in collina
Autore: Cesare Pavese
Prima edizione: 1948
Edizione usata per la recensione: Einaudi, 1990

Cesare Pavese scrive La casa in collina tra il 1947 e il 1948 e nel 1950 vince il Premio Strega con la raccolta di racconti “La bella estate”; dopo pochi mesi si suicida. Ambientato nell’estate del 1943, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, La casa in collina è la storia di Corrado, professore quarantenne di origini contadine che lavora a Torino. Corrado rappresenta l’intellettuale travolto dai turbamenti interiori legati anche al periodo storico e quasi costantemente animato da un certo desiderio di solitudine (in questo si può probabilmente riscontrare un tratto autobiografico dell’autore). Corrado insegna in città e la sera si rifugia in collina, nella casa di due donne: Elvira e sua madre; la figlia è innamorata del professore, ma non viene ricambiata. Il protagonista passeggia spesso con il cane Belbo per le colline  che gli ricordano quelle della sua infanzia. Una sera sente delle voci e dei canti provenire da un’altra casa sulla collina, che prima della guerra era l’osteria le Fontane, si avvicina e lì trova un gruppo di persone. Tra queste c’è anche Cate, una donna con cui aveva avuto una relazione otto anni prima e che ora si dimostra più matura anche nell’atteggiamento; lei un tempo si era innamorata di Corrado, mentre questi pensava a lei come a un semplice svago e per ciò l’aveva lasciata senza celare le sue motivazioni. Lui la ricorda così: “Le comperai qualche volta un rossetto che la riempì di gioia, e fu qui che mi accorsi che si può mantenere una donna, educarla, farla vivere, ma se si sa di cos’è fatta la sua eleganza, non c’è più gusto” (pag. 11). Ora però ha paura della reazione di lei nel rivederlo e prova disagio nel ricordare le sue azioni che chiama “le assurde villanie di una volta” (pag. 40) . Capisce che Cate è cambiata, lavora in ospedale a Torino e ha un figlio ma alcun marito. Il professore, solo più tardi, si chiede se lui stesso sia il padre di quel bambino, che porta il suo nome sebbene venga chiamato con il diminutivo “Dino”.

Quando arriva la notizia dell’armistizio Cate è molto felice e positiva rispetto gli esiti della guerra, ma poco dopo lei e gli amici partigiani delle Fontane vengono arrestati dai tedeschi. Corrado e Dino si salvano e insieme, grazie all’aiuto di Elvira, si nascondono presso il Collegio di Chieri. Ma Dino scappa per tentare di unirsi ai partigiani e così di lui si perdono le tracce: “Del ragazzo nessuna notizia; se davvero era arrivato in montagna, nelle ultime settimane era finito chi sa dove. Certe bande, si diceva, sconfinavano in Francia. Non era posto da bambini lassù” (pag. 101). Corrado si allontana da Chieri solo quando non è più un posto sicuro e decide di tornare nelle Langhe, la sua terra natia dove vivono i genitori e la sorella. Questi sono i pensieri del professore prima della partenza: “Ormai, pensavo, sono in ballo. Se mi fermano, è fatta. A Chieri non potevo restarci. Alla villa, nemmeno. Se penso agli spaventi dell’inverno, al collegio, mi sentivo temerario, incosciente, ragazzo. Sapevo bene che in tutta la Langa non c’era un tedesco che sapesse il mio nome, ma ormai ci avevo fatto il callo e il terrore di tutti era anche il mio: ogni spavento serviva per scusarmi” (pag. 106).

Questo libro racconta della solitudine di un uomo, che non riesce a impegnarsi civilmente e non partecipa alla Resistenza. Corrado, nel riflettere, dice: “In sostanza chiedevo un letargo, un anestetico, una certezza di essere ben nascosto. Non chiedevo la pace del mondo, chiedevo la mia. Volevo esser buono per essere salvo” (pag. 91). Ma quando, alla fine del libro, arriva nelle sue colline tra le Langhe, dove crede di trovare un po’ di pace, trae queste conclusioni: “Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è sola viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi. Non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione” (pag. 122).

Il narratore in prima persona avvicina il lettore e gli fa vivere le vicende con gli occhi di Corrado, descrivendo un Paese povero e dilaniato dalla guerra ma ricco di gente umile e sentimenti forti e alternando descrizioni della città (compresi i bombardamenti su Torino) ad altre della campagna. La storia viene raccontata seguendo l’ordine cronologico degli eventi e ripercorrendo le tappe della guerra, tranne nella prima parte dove Pavese tratteggia la vita prima dell’inizio del combattimento.

Ho letto per la prima volta questo libro negli anni del liceo e in quell’occasione la mia attenzione è stata attratta da questa frase: “…la vita ha valore solamente se si vive per qualcosa o per qualcuno…” (pag. 30); oggi, a distanza di quasi vent’anni, quella frase resta altrettanto importante e degna di nota.

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