
Autore: Laura Pariani
Data di pubbl.: 2018
Casa Editrice: NN editore
Genere: Distopia, letteratura contemporanea
Pagine: 187
In una città-Stato totalitaria, calata in un futuro né troppo vicino né troppo lontano, Lusine, dal profondo delle Catacombe, osserva su un monitor gli spostamenti di Maria N, madre di Jesus N, trentatré anni, misteriosamente scomparso. Maria, seguita dall’occhio vigile di un onnipresente nano-drone, cerca il figlio, lungo le tappe di una via crucis che la conduce all’Orto, al Commissariato dell’Arco, al Cortile del Fico, a Villa Ridente, al Garage sotto la Tangenziale, alla Caserma del Teschio… Il suo è un pellegrinaggio, da un luogo all’altro, a elemosinare informazioni che nessuno le dà. La sorte del figlio è segnata: incarcerato nell’Ala Geenna, Interrogatori Speciali, sarà presto giustiziato. L’addetta al rilevamento Lusine alias H478 (la sostituzione dei nomi è il topos di ogni distopia che si rispetti), lo sa. Jesus è un sovversivo: il suo sogno è educare i Mezzòmini, miserabili mutanti accampati nei pressi della Recinzione Nord. “Dare a chi fugge dai Territori Esterni motivo di sperare. Educare alla libertà, curare, preservare la vita”. Lusine legge frasi simili sul diario del ribelle e si chiede come possa, un giovane di famiglia media, essere attirato da antiquate sciocchezze umanitarie. Eppure, il solo fatto di porsi una domanda instilla un tarlo nella sua coscienza. Riaffiorano in Lusine i ricordi di un passato differente dal presente e il destino di Maria, alias il soggetto-23.017, non le sembra più così distante dal suo.
Di ferro e d’acciaio (NN Editore) è un romanzo di Laura Pariani, prolifica scrittrice e autrice di teatro, lombarda, cresciuta a Magnago, dove l’Alto Milanese sconfina nel Varesotto, residente da tempo sul lago d’Orta. Questo è il primo libro della collana CroceVia, pensata dalla casa editrice come “una serie di libri attorno al senso e al significato di alcune parole fondamentali nella nostra cultura e nella nostra storia. Sono parole antiche, che usiamo tutti i giorni, e che cerchiamo di addomesticare disabitandole di una parte del loro significato, che continua a riverberare come un’eco sommessa”. L’obiettivo è riportare i termini alla loro radice, piantata nel nostro terreno storico e valoriale. Svuotate dall’abuso verbale, dal chiacchiericcio da bar o da talk show serale, dal si dice vacuo e catatonico, molte parole, a partire dalle più alte, sono oggi svilite, tramortite e abbassate di grado. Nel medio immaginario collettivo, Passione, la parola attorno a cui ruota Di ferro e d’acciaio, ha ormai un’accezione in prevalenza filosessuale, filtrata da una psicologia spicciola, tanto cara ai rotocalchi. Ma Passione ha un’etimologia chiara, pathos, pati, passus, patire, e un riferimento religioso altrettanto evidente: la sofferenza di una madre, Maria, per il figlio, Jesus. Una storia di morte e di resurrezione che tutti conoscono.
Serviva una mano ferma e talentuosa per cementare in un’unica, fluente narrazione tante suggestioni, afferenti a diverse sfere del pensiero, della cultura e della letteratura. Il rischio del pastiche estetizzante, in questi casi, è dietro l’angolo. Invece Laura Pariani in Di ferro e d’acciaio fonde con maestria il tema della Passione di Cristo alla distopia di George Orwell, le profezie sulla fine della civiltà di Giovanni Testori alla fantascienza filosofica dei fratelli Strugatzki, la satira antitecnologica di Kurt Vonnegut alla denuncia delle utopie totalitarie di Eugenij Zamjatin. Inoltre, il libro potrebbe essere considerato un controcanto ironico alle cronache medievali di Bonvesin de la Riva (De magnalibus urbis Mediolani, 1288), volte ad elogiare la libertà, l’agiatezza diffusa, la modernità della Milano viscontea, un encomio ricco di descrizioni e di numeri riassuntivi dell’invidiabile potenza della città in un’epoca di turbolenze.
Laura Pariani trasfigura la metropoli del nord in un incubo. Divisa in Città-Est e Città-Ovest, riunita sotto i simboli minacciosi della Serpe e del Mugghiante, chiusa da barriere protettive, disseminata nelle sue periferie di casermoni-pollai detti Falansteri (un’allusione esplicita alle utopie urbanistiche e sociali di Charles Fourier), controllata da una classe dirigente automutilatasi dal “peso” delle emozioni, questa agghiacciante supercittà padana, un mix cibernetico di Milano e di Torino, è il campo di concentramento definitivo, un delirio plasmato da Ingegneri Sociali ultrapositivisti, nel segno dell’efficientismo e dell’eugenetica applicata. La città-Stato è l’Uno filosofico di Parmenide, senza fessure, impermeabile all’alterità, fattosi realtà politica, ed è al contempo un Argo perennemente vigile. Gli abitanti di questa mostruosa entità, imbottiti di pillole stordenti, rimpinzati da orrendi cibi sintetici, monitorati da cima a fondo, vessati da un Silenzio Salutare, imposto alla stregua di un dogma religioso, possiedono, ultima risorsa per sfogare l’inespresso, un Ricordatore Personale, illusorio confessionale che resetta il nastro dopo poche ore. Solo accostandosi alla voce e al corpo di Maria, Lusine può esercitare l’empatia dell’ascolto e assorbire la verità dei fatti, amara come un veleno.
Dopo la devastante guerra dei Cinquanta Minuti ed il conseguente imbarbarimento politico, i tentacoli della Dittatura hanno stritolato la fantasia, proibito il libero esercizio dell’intelletto e annichilito i rapporti umani. Laura Pariani interroga le macerie, e incontra sulla sua strada, da scrittrice accorta, l’evoluzione della lingua. Punto cruciale. Fresche invenzioni punteggiano la narrazione: è una lingua intessuta da neologismi, tocchi gergali, lombardismi. La pillola fizzballa, i seculòrum, la mia nonnàva, restare sul quamquàm, l’eran minga dei nostri, ròbb de matt, tira-mola-martèla, il padrùn della melunèra… Oltre al dialetto, è la cadenza della parlata, la stessa costruzione della frase a essere vicina alla musicalità del milanese. Un virtuosismo fine a se stesso? Tutt’altro. Il labor limae appare, subito, l’architrave stilistica del romanzo. Associata alla durezza della trama, alle atmosfere sudamericane tipo Garage Olimpo, ai toni apocalittici, la lingua, così impastata, induce un effetto di straniamento nel lettore. È un futuro bizzarro, terribile e familiare.
Di ferro e d’acciaio ha una struttura formale rigida. Capitoli dedicati a luoghi della città si intervallano a capitoli aventi donne per protagoniste. Vittime e carnefici, giovani e anziane, le donne apparecchiano un coro, a coprire l’arco di dolore di Maria. “Il peggio, la paura più grande, è quando si sente che qualcosa, qualche cosa di più pulito, potrebbe esistere. Guardiamo con gli occhi socchiusi, intravediamo un possibile cambiamento, poi però li apriamo e vediamo scivolare tutto nel fango, gli imbecilli e i vigliacchi rientrare dalla finestra, e la morte divorare tutto un’altra volta. È allora che si capisce davvero che cos’è la paura: questo mondo è marcio, senza speranza”. In Di ferro e d’acciaio affiorano richiami alle odierne emergenze sociali ed ambientali, dalla condizione dei migranti alle differenze materiali e di status tra garantiti e schiavi, dalla tirannia del consumo coatto ai deserti esistenziali, dove ci spinge l’eterno presente della tecnologia, fino al collasso delle democrazie. Jesus diceva: “È questo lo spazio di noi umani: ricordare, progettare, capovolgere con un sogno la piatta normalità”. Stavolta, però, non basterà il sacrificio di un singolo. Umanità, sei pronta a morire per poi risorgere?