“Mi era stato detto di esprimere i miei pensieri ad alta voce e di non tenerli solo nella testa, ma io decisi di scriverli. Erano le cinque di mattina…Presi una biro e provai a scrivere i miei pensieri. Le parole che uscivano dalla biro e finivano sulla pagina erano più o meno tutte le cose che non volevo sapere”.
Il libro di cui scrivo oggi l’ho letto e subito riletto, e mentre scrivo la recensione vorrei rileggerlo ancora e impararne a memoria alcuni passaggi, come quello che apre questo articolo, per capirlo ancora meglio, per riconoscere all’autrice con la rilettura, la forza e la bellezza di questo libro.
Provo a raccontare “Cose che non voglio sapere”, autobiografia di Deborah Levy, una delle maggiori scrittrici inglesi, pubblicata in Italia da NN Editore, che pubblicherà anche i volumi seguenti a completare una trilogia iniziata nel migliore dei modi.
Da una situazione molto comune ai giorni nostri, da ansia e preoccupazioni che sfociano spesso in pesantissimi attacchi di panico, inizia un viaggio introspettivo, agevolato dalla decisione di muoversi anche fisicamente, raggiungendo una piccola pensione a Palma di Maiorca. Qui la protagonista incontra Maria, una donna molto interessante, curiosa, originale, che la accoglie così bene da agevolare inconsapevolmente il viaggio dentro sé stessa tanto desiderato da Deborah. Dialogando la stimola, la indirizza, come altre donne che incontreremo nel libro, a parlare e a scrivere, a riflettere sulla sua natura di donna e sulla maternità, argomento centrale del libro. Così inizia a raccontarsi, dalle sue origini, dai primi passi in un Paese segnato dall’apartheid, il Sudafrica, dove per lei tutto si presenta subito in salita, come le scale mobili per risalire dalla metro, che scoprirete presto non piacere per niente a Deborah. Deve affrontare una salita in particolare molto faticosa, che è ancora bambina, quando le autorità le portano via il padre e lo chiudono in carcere, come tantissimi altri che non credono nell’apartheid. Per Deborah è durissima, coloro che le stanno accanto adottano le soluzioni più comuni pensando di fare il suo bene, o forse perché si è sempre e solo fatto così: cercano di allontanarla dal dolore quotidiano affidandola ad altri. Soprattutto ad altre.
“A scuola, quando cercavo di parlare, facevo molta fatica a far uscire le parole ad alta voce. Era come se il volume della mia voce fosse stato in qualche modo abbassato e io non sapevo come alzarlo”.
Il viaggio della sua giovane vita quindi, segna già nuove tappe, accumula nuovi incontri e confronti, e crescendo la bambina affina le sue capacità di cogliere elementi importanti dalle esperienze quotidiane. Come questa:
“A sette anni cominciavo a intuire una cosa. Aveva a che fare con il fatto di non sentirsi al sicuro con le persone che avrebbero dovuto farmi sentire al sicuro”.
Quando una bella notizia la riporta a casa, torna gioiosa dalla sua famiglia che si ricompone, torna con la segreta speranza di ricostruire un pupazzo di neve in Sudafrica, che aveva realizzato insieme al suo papà, e invece si ritroverà ancora in viaggio, forse quello fondante per la sua vita, verso l’Inghilterra, patria di grandi scrittrici e scrittori, ventre dal quale rinascerà.
“Quando arrivai al take-away cinese Holy, premetti la guancia contro la vetrina e aspettai che la mia vita cambiasse”.
Questo primo step della trilogia autobiografica di Deborah Levy, ci fa conoscere le sue radici profonde, i suoi primi passi, che sicuramente lasciano segni importanti nel suo animo e, quasi come un manuale di scrittura, ci rivelano il suo innamorarsi di questa forma artistica, di questo modo privilegiato di esprimere ciò che alberga nel più profondo dell’animo di ciascuno. Sono convinto che sia proprio il modo di scrivere di Deborah Levy che mi ha più affascinato di questa lettura. L’autrice pare riflettere, ragionare, ricordare eventi e dettagli importanti della sua storia personale, e riversarli senza filtri o particolari rielaborazioni, sulle pagine. Il linguaggio lo definirei semplicissimo ma non povero, pacato ma deciso, ficcante. Le descrizioni di fatti e situazioni sono prive di fronzoli, ma ricchissime di spunti e rimandi.
Come si dice in altri ambiti, il vino buono sta nella botte piccola, e questo libricino contiene un nettare denso ed eccezionale.
Buona lettura. Io lo rileggo per la terza volta, perché dice molto più di ciò che ho scritto io naturalmente, e molto di più di ciò che già se ne dice.
Claudio Della Pietà
“Sapevo di voler diventare una scrittrice più di ogni altra cosa al mondo, ma ero sopraffatta da ogni altra cosa e non sapevo da dove cominciare”.