Intervista di Matteo Porrati
Romano De Marco, dopo belle pubblicazioni con Fanucci e Feltrinelli, pubblica il thriller “L’uomo di casa” con Piemme, editore che negli ultimi anni ci ha regalato non pochi brividi, e tutti di qualità. E’ stato capace di presentare personaggi all’inizio antipatici e poi di farceli amare, come Giulio Terenzi in “A casa del diavolo”, oppure di guidare il lettore a una consapevolezza anche personale a volte, mostrando che lo sbagliare è una concezione del tutto personale e spesso non giudicabile. In questo la figura di Luca Betti in “Io la troverò è rivelatrice”.
Il nuovo romanzo di De Marco rispetto ai precedenti cambia totalmente ambientazione e dalla provincia più o meno grande italiana, si approda ad un’America perfettamente conosciuta e ben narrata. Chi è l’uomo di casa, viene da chiedersi avendo il libro in mano e tutta la costruzione del thriller ruota intorno all’identità del protagonista. Ma c’è anche un altro personaggio fortissimo, il mostro, che ha il nome di un demone della Mesopotamia, una donna spietata che rapisce e uccide i bambini. Non è thriller se il passato non è torbido e se le tinte del presente non sono di un rosso accesso. Quelle del sangue, il cui sentore metallico e dolciastro aleggia opprimente in tutte le pagine.
In questa intervista all’autore vogliamo farlo parlare di sé in una maniera un po’ diversa, facendo un viaggio tra i sette vizi capitali all’interno della letteratura e della sua personale esperienza. Se la sente di fare questo particolare viaggio?
E’ una proposta un po’ particolare, ma … proviamo!
Perfetto. Partiamo subito da un vizio molto scomodo in un ambiente come quello letterario: la superbia.
Scrivo da un periodo relativamente breve, ho iniziato dopo i quarant’anni. Non ritengo la scrittura una professione, ma solo una passione che mi aiuta a completarmi, a sviluppare la parte creativa della mia persona a dispetto di un lavoro molto tecnico che non lascia troppo spazio alle interpretazioni e alla fantasia. Non sono mai stato superbo rispetto alle cose che scrivo, non ne avrei nemmeno motivo visto che non sono un cosiddetto “top seller”. Certo, mi è capitato, frequentando il mondo dell’editoria, di confrontarmi con questo tipo di atteggiamento. Ed è una particolarità tutta italiana. Ho conosciuto di persona autori stranieri che vendono milioni di copie in tutto il mondo (Jeffrey Deaver, Wulf Dorn…) che mantengono una dimensione di umiltà davvero esemplare. Dovrebbero essere presi ad esempio dai tanti “colleghi” che si sentono in diritto di ergersi su un piedistallo perché hanno venduto qualche migliaio di copie, vinto qualche premio o, addirittura, solo per il fatto di aver pubblicato.
Veniamo ora all’avarizia. Ha mai sentito la necessità di essere avaro nella scrittura?
Non mi ritengo avaro in alcun modo. Tanto per cominciare in editoria si guadagna poco o niente (se non sei uno di quei top seller di cui sopra…) quindi, per citare un pezzo dei Simply Red direi che “Money’s too tight to mention”. Aggiungici che fino ad oggi, mediamente, per promuovere le mie cose in giro per l’Italia, ho sempre speso di persona circa il triplo di ciò che ho guadagnato con la pubblicazione… Se ci riferiamo, invece, a un altro tipo di avarizia, cioè sui contenuti della scrittura, direi che la risposta è la stessa… nelle cose che scrivo cerco di essere sempre me stesso, di non fingere, idem nel rapporto con i lettori. Sono sempre disponibile a confrontarmi, ad accettare critiche, a consigliare e a leggere le cose che mi vengono proposte (quando ciò avviene con educazione e con garbo).
Per quanto riguarda la lussuria, evitando domande troppo personali e stando sempre sul piano letterario: ha mai provato grande desiderio di affermazione e possesso materico del successo?
Il mio desiderio di affermazione fa parte della mia natura umana come di quella di chiunque altro ma che, nel mio caso, non è esclusivamente fondata sul fatto di essere un autore di narrativa. Riesco a mantenere un certo distacco dal mondo dell’editoria. Grazie al cielo sono riuscito ad affermarmi nel lavoro, nella vita, nella mia dimensione di genitore. Sarebbe davvero pericoloso basare tutto solo su uno dei ruoli che si rivestono.
Che rapporto ha con il successo degli altri, quindi con l’invidia?
L’invidia è un sentimento che tutti hanno provato nella vita. Anch’io, spesso e volentieri. Ma non la considero una sensazione negativa, anzi… Può essere uno stimolo a migliorarsi, ad andare avanti. Deve essere accompagnata dalla voglia di progredire, dalla disponibilità al cambiamento. Io spesso e volentieri ho invidiato e invidio la bravura di alcuni autori, la loro capacità di essere incisivi con la scrittura, la loro inventiva nel creare storie avvincenti e originali. Questo, però, non mi ha mai impedito di continuare a scrivere, anzi. Mi ha piuttosto aiutato a migliorarmi (spero) a dare qualcosa in più, a spostare più in alto l’asticella. Se poi ci sia riuscito o meno lo lascio stabilire dai lettori.
La gola nella letteratura può essere il desiderio frenetico di raccontare, anche al di là dei propri limiti. Quanto c’è di lei nei personaggi che fa vivere? E quanto c’è di ciò che non le appartiene davvero?
Come diceva Louis Robert Stevenson, è impossibile creare un personaggio dal nulla. Nei personaggi c’è sempre qualcosa di chi scrive o di persone che hanno interagito con lo scrittore. Personalmente metto sempre qualcosa di me stesso nei miei romanzi. In particolare uno dei miei personaggi “seriali” (Luca Betti) che è una specie di mio alter ego. Ha dei trascorsi molto simili ai miei e agisce e si muove come farei io se mi trovassi al suo posto. Ma si può mettere se stessi anche in personaggi che non hanno nulla a che fare con il proprio vissuto. L’importante è porsi con onestà nei confronti dei lettori, tutto il resto è un processo automatico e consequenziale, molto naturale. Poi, ovviamente, quando tratteggio personaggi negativi (necessari all’economia del tipo di vicende che racconto) mi tocca anche improvvisare, inventare di sana pianta.
Stephen King dice di essere onesti quando si scrive: se un personaggio è maleducato e arrogante, non potrà avere la bocca saponata. Confesso che nei suoi lavori queste convinzioni sono percepibili e credo che contribuiscano in modo significativo a farli apprezzare. Ma tornando ai vizi…lei è un tipo calmo e pacato o piuttosto tende spesso ad arrabbiarsi?
La tendenza ad avere scatti d’ira, purtroppo, fa parte del mio carattere. Forse è la conseguenza del mio percorso di vita che mi ha portato ad essere, nel bene e nel male, quello che sono oggi. Ma anche in questo caso, come per l’invidia, cerco di sfruttare i miei difetti a mio vantaggio. L’ira può essere una carica interna che ti aiuta a superare ostacoli e a risolvere problemi (se riesci ad incanalarla nella giusta maniera e a non farti prendere la mano). Certo, quella volta che sono sceso sotto casa alle tre di notte, con un bastone in mano, per affrontare quattro giovinastri ubriachi che urlavano svegliando tutto il circondario… ecco, quella non la definirei “la maniera giusta”! Riguardo alla scrittura, ho sempre scritto meglio quando mi sono trovato ad essere particolarmente nervoso o preoccupato.
In quanto a pigrizia invece, che cosa ci può dire? Ha sempre voglia di scrivere oppure qualche volta fa fatica?
Mi è capitato, ma di rado. Ho la spiacevole tendenza a dire sì a tutti e, a volte, sono in ritardo nella consegna di un racconto. Qualche volta ho dovuto modificare qualcosa che già avevo, facendo pubblicare dei miei scritti dei quali non vado particolarmente fiero. Ma non si è trattato mai di pigrizia, piuttosto della mancanza di stimoli creativi genuini a causa del poco tempo a disposizione. Riguardo ai “pretestuosi consigli” non mi sono mai fatto fregare… I consigli li accetto sempre di buon grado, da tutti (anzi, spesso e volentieri sono proprio io a chiederli), ma li filtro e li valuto secondo la mia sensibilità e il mio modo di intendere la scrittura.