TITOLANDO di Sergio Donato

VENT’ANNI DOPO

Lo chiamavano BARBAGRIGIA perché era tanto vecchio che sul mento aveva fili d’argento. I ragazzini andavano a contarglieli ogni giorno, lì sul molo. Egli scacciava le dita curve e diceva ai piccoli deformi di ascoltare IL SILENZIO DELL’ONDA. Ma quelli non capivano e rispondevano che il mare faceva rumore, altroché! Poi se ne andavano schiamazzando e il vecchio urlava loro contro la solita frase: «Perfino I PESCI NON CHIUDONO GLI OCCHI!” Ma quelli erano già lontani. Distratti. Veloci. E allora il vecchio restava sul molo fino al tramonto marrone a osservare la risacca di melassa, non oltre, perché quelli che lo avevano preceduto gli AVEVANO SPENTO ANCHE LA LUNA. Brillava così fioca dietro le ceneri atomiche. Preferiva andare via prima che la malinconia lo afferrasse e rivedere il MARE AL MATTINO, il giorno dopo. Immobile sul legno radioattivo ma pronto, COME SASSO NELLA CORRENTE che sa di poter diventare ciottolo.
Nessuno prestava più attenzione. Non c’era più NIENTE DI VERO TRANNE GLI OCCHI, ma nessuno li usava più. Il mondo si era accartocciato, deformato. Era così giovane eppure così fragile. I ragazzini erano una sopravvivenza macilente e nessuno superava i quindici anni. Lui, con i suoi quaranta, era il più vecchio del paese. L’ultimo anziano. L’unico ad avere il ricordo di QUEL FANTASTICO GIOVEDÌ, quella giornata tersa di primavera in cui l’umanità aveva acceso un secondo sole affinché bruciasse tutto lasciando che IL VECCHIO E IL MARE s’incontrassero anni dopo, tutti i giorni.
*OGNI COSA È ILLUMINATA*, si ripeteva il vecchio. Ma in quel grigiore canceroso era vero solo per colui che poteva ricordare IL MONDO PRIMA DEL BUIO.

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