L’idioma di Casilda Moreira – Adrián N. Bravi

Titolo: L’idioma di Casilda Moreira
Autore: Adrián N. Bravi
Data di pubbl.: 2019
Casa Editrice: Exòrma edizioni
Pagine: 187
Prezzo: € 15,50

Argentina. Tra la sconfinata pampa e la Patagonia, nel remoto villaggio di Kahualkan, una lingua moribonda abita le memorie di due anziani cugini, uniti in fidanzamento in gioventù e poi separati, forse per sempre, da un invincibile rancore. Casilda Moreira e Bartolo Medina, settantenni, sono gli ultimi custodi dell’idioma degli indios günün a yajüch, sopravvissuto all’irruzione devastatrice dei conquistadores europei e alla prevalenza etnica dei mapuche. Evitano di parlarsi, e quando parlano con altri ricorrono allo spagnolo.

Italia. Un professore di etnolinguistica, Giuseppe Montefiori, si chiude a riccio nella sua casa, adagiata a un passo dai Monti Sibillini. Montefiori diserta le lezioni universitarie e non lascia trapelare nulla sul suo stato di salute. Nemmeno la moglie conosce le ragioni di tanta solitudine autoimposta, di tanta afflizione. Il rebus è presto svelato, complice l’intuizione del suo empatico allievo, Annibale Passamonti. Il professore, autore di un pregevole testo, Lingue reali e lingue immaginarie nei racconti dei conquistatori e dei viaggiatori del Sudamericatramite un articolo è giunto a conoscenza dell’esistenza di Bartolo e Casilda, depositari dell’idioma dei tehulches settentrionali, detti anche pampasgennaker puelches. Il günün a yajüch rappresenta per lui una ferita non cicatrizzata, il rimorso per una scoperta sfuggitaIl desiderio di registrare le loro voci, di costringerli al dialogo per decodificarne i costrutti sintattici, assume i contorni di un’ossessione invalidante. Annibale va a trovarlo, e il giorno seguente, per distrarlo dalla malìà in cui è sprofondato, lo convince ad andare al mare. E qui avviene il fattaccio. Il professor Montefiori durante una nuotata al largo, oltre gli scogli, è punto da una medusa che gli si introduce in gola. Il luminare cade in uno stato di coma.

Adrián N. Bravi, cinquantaseienne scrittore argentino, di origini italiane, trapiantato da tempo a Recanati e di professione bibliotecario, è l’autore de L’idioma di Casilda Moreiraromanzo scorrevole, piacevole, dall’impianto narrativo lineare. Bravi, di madrelingua spagnolo, da una ventina d’anni, rifiutando l’intransigenza del maestro Julio Cortázar (“che non ha mai abbandonato la sua lingua madre pur vivendo fuori dall’Argentina”), scrive direttamente in italiano. Bravi ci restituisce, nelle forme sicure di una prosa limpida, l’esito di un processo di trasformazione personale, un cimento tecnico, culturale e sentimentale non scontato nei risultati. Scrivere, come vivere, è un mestiere, e Bravi ha affrontato il senso problematico di questa avventura letteraria in un testo precedente, intitolato La gelosia delle lingue. “Le lingue non hanno frontiere e non appartengono a nessuno, solo a chi le parla e le vive dall’interno. A volte, ho l’impressione che certi ricordi o le nostre storie d’amore non possano vivere con la stessa intensità in due lingue diverse” (intervista rilasciata a Il Manifesto nel febbraio scorso). Bravi non è ospite della lingua italiana, bensì l’attraversa con praticità, estro e concretezza.

Nelle descrizioni di luoghi e di ambienti alla fine del mondo è evocata la lezione di amatissimi scrittori, Ricardo Piglia, César Aira e Juan José Saer. In esse, filtra lo stupore primordiale per l’infinita apertura del paesaggio, per il vento dominatore, per gli spazi desolati ed enigmatici. Intuizioni del sublime, a contrasto con l’ordinata bellezza degli ‘ermi colli’ del Centro Italia. Aereo per Buenos Aires, treno in direzione sud, e tratto finale percorso in un furgone, guidato dal simpatico Zunino: così il giovane Annibale raggiunge Kahualkan. Migliaia di chilometri per arrivare in un paese schiacciato tra cielo e terra. Lo attendono due settimane di ricerca sul campo, in compagnia di cavalli indolenti e fedeli, vacche gelose dei propri pascoli, gauchos nella veste di stereotipati villainalberi secolari puntati al suolo come silenziose sentinelle, empanadas ammuffite in negozietti scalcinati e storie maledette appassite nella bocca degli anziani. Annibale alloggia in un una locanda, dove incontra la bella Alma, figlia del padrone e aspirante farmacista.

Seduto nella sua stanza, sedotto da una speranza d’amore, Annibale pianifica il salvataggio del tesoro dei günün a yajüch, scrigno di meraviglie semantiche e favolosa fontana da cui zampillano concetti, sostantivi e fonemi uniciCon un escamotage astuto e un po’ vile, riesce a far dialogare Casilda e il povero Bartolo. Missione compiuta? Non proprio. L’impresa è messa a repentaglio da ostacoli imprevisti. Scienza occidentale e visione magica della realtà collidono. I contenuti della chiacchierata restano imperscrutabili, inavvicinabili per volontà dei protagonisti. Pudore? Certo, ma la questione, suggerisce Bravi, pare invalicabile anche per motivi più seri, costitutivi del linguaggio stesso.

Casilda gli spiegò che quella era stata la lingua dell’innamoramento tra lei e il suo yalalaw e che una volta morto l’innamoramento doveva morire anche la lingua. Annibale provò a dirle che le lingue, compresa quella della nonna Yakak, possono esprimere qualsiasi sentimento, prima e dopo la morte del sentimento stesso, perché è l’unica cosa che abbiamo e che ci possiede. Casilda replicò che loro, lei e Bartolo, avevano guardato l’orizzonte mano nella mano in quella lingua, avevano nominato insieme le stelle e gli uccelli. […] Cercò di spiegargli che, tra la sua gente, quando uno moriva il suo nome non veniva più pronunciato per paura di svegliare gli spiriti.

Adrián N. Bravi, forte della sua formazione filosofica, ne L’idioma di Casilda Moreira interpella i fondamenti e gli aspetti critici della linguistica. Cos’è una lingua? Si poggia su strutture innate? È un prodotto culturale? Vive nella mente collettiva di un popolo? Può resistere alla scomparsa di chi la parla? Quali sono i margini entro i quali una traduzione è possibile? Come mutano, all’interno di un paradigma distante dalla razionalità di marca europea, i rapporti tra ‘segno’ e ‘referente’? “Il recupero del linguaggio corrente di un uomo dalle sue risposte comunemente osservate è il compito del linguista che, senza l’assistenza di un interprete, cerca di penetrare e tradurre una lingua fino a quel momento sconosciuta. I soli dati obiettivi su cui deve basarsi sono le forze che vede venire in urto con le superfici dell’indigeno e il comportamento osservabile, vocale e d’altro genere, dell’indigeno”, scriveva nel suo celebre Parola e oggetto W.O.Quine, logico e fondatore riconosciuto della filosofia analitica. Se un indigeno proferisce il termine ‘gavagai’ vedendo passare un coniglio che corre, cosa intende con ‘gavagai’? Il coniglio nella sua interezza o solo una parte di esso? L’animale in corsa o l’animale a prescindere dal suo essere in movimento? Nulla impedisce che l’espressione qui utilizzata corrisponda a uno specifico stadio percettivo, ignoto all’osservatore. Così, il significato del dialogo tra Casilda e Bartolo è cifrato dall’irripetibilità di un’occasione. La lingua assorbe i colori e i profumi dell’esistenza, sfiora i prati, i fiumi, si abbevera di albe e tramonti, quindi si fonde con gli istanti e con le evenienze che hanno cagionato il suo emergere e il suo articolarsi. Semplicemente, accade.

Lo scrittore libico Hisham Matar, a proposito di Joseph Conrad, ha parlato di una “lingua tormentata dalla soggettività, inglese ma non d’Inghilterra”. L’idioma altrui è sempre un bene fragile, potente, alieno. Tradurre i pensieri equivale a tradire restando fedeli, nella resa vi è sempre uno scarto e nello scarto può verificarsi lo sprigionamento di grandi energie. Il romanzo di Adrián N. Bravi è insieme una perlustrazione degli anfratti dell’arcano, un elogio della poesia spontanea del vivere e una difesa della pluralità dei linguaggi, ricchezza non riducibile all’unità arida di schemi o di categorie.

Salentino nato "per errore" a Como (anche per ammissione di chi lo conosce), si laurea in Filosofia a Milano, con una tesi sul concetto di guerra umanitaria. Vive a Bari con Mariluna. Adora il Mediterraneo, ama Lecce, Parigi e Roma. Sue passioni, a parte la buona tavola, sono la letteratura, il cinema, il teatro e la musica. Un tempo, troppo lontano, anche la politica. Suo obiettivo è difendere, e diffondere, la pratica della buona lettura. Recensisce i libri meritevoli di essere considerati tali, quelli che diventano Letteratura, con la L maiuscola, e che gli lasciano un segno. Alessandro scrive con regolarità su Zona di Disagio, il blog del poeta e critico Nicola Vacca, collabora con la rivista Satisfiction, anima il blog di economia e di politica Capethicalism, e scrive di serie TV su Stanze di Cinema.

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