«La città risale da chissà quanta profondità ed emerge ora dalle acque ; non come fanno sottomarini e balene ma, allo stesso modo inaspettata e insospettata molto lentamente, così che la si può ammirare, un sommario di resurrezione o nascita : è un castello numinoso come un waltdisney, viene alla luce ed è nello stesso tempo luce e pietra, simile alla testa di un’atena prematura che si faccia di nuovo strada dalla vagina encefalo di zéus, e coronata di gemme, di metalli luccicanti, di placche metalliche e cinta di mura difensive, il volto dipinto da una tribù di colori al netto delle sfumature : blu di persia, terra rossa, nero di china, bianco titanio ; non tutti si possono nominare ; o sì forse, se uno facesse ricorso a una palette fantastica, fosse disponibile, piuttosto che alla rigida classificazione rgb. Risale da un sua paradossale acropoli inversa la città, d’acqua, e poco dopo avere preso a levarsi verso il cielo, che si incanti sembra, forse che flotti e che non voglia, o non possa volar via dalla corrente che la circuisce ; ché non è ferma l’acqua ; è un liquore scuro e lucente e spumeggiante, è un arno in piena giù per le sue briglie, e la città sta lì a gocciolare, ancora immersa per metà, il che vuol dire di molti metri fuori dall’acqua e gocciola e sgocciola, dai tetti a spiòvero, la città, dalle guglie ardite, dalla vetta delle torri di guardia ad alcunché, gocciola da infiniti doccioni, da gargouilles come sono le gargouilles, tassonomía di altre zoologie ; sgocciola goccia a goccia ed è una pioggia di brillanti o di stelle rovescie che in mente abbiano soltanto di tornare a ripiombare laggiù nell’equivoco di quella loro galassia d’acqua. È una città di fiume che è del fiume. La tira da una parte la corrente e la spinge dall’altra ma di smuoverla non riesce, tanto è solida la città, con l’acqua che spumeggia contro le mura della cui cinta di graniti d’argento e d’oro e carborùndum, essa si adorna. In prospettiva adesso svetta come di Ambrogio Lorenzetti una sua assonometría. E dopo un largo tempo la città flotando di nuovo sprofonda. Così. Fu a quel punto che non solo mi resi conto di stare fabbricando un sogno, anzi di averlo già per intero fabbricato, e può darsi impreziosito, quando d’un tratto smossi gli occhi lì sotto le mie molteplici palpebre – unter soviel lidern – le anatomiche ovvie e le impalpabili dell’immaginazione, e che dal sogno stavo ormai sciogliendomi o che il sogno aveva preso a diluirsi in me ; che cominciavo del sogno a far l’analisi logica, a passarlo al vaglio della critica della ragion onirica, impaniandomi in un labirinto d’ombre, a concludere che un sogno è un sogno è un sogno : come la rosa che è una rosa è una rosa nel verso di gertrude stein i sogni non vogliono dire altro che sé stessi, niente che non manifestino. Ovvero, forse riuscendo a scucirne la trama, a sfilarne le imbastiture, e a levarne i punti di sutura riassorbibili, forse mostrerebbero gli elementi che l’inesplicabile ospite del cervello – quel che privo di documenti che lo certifichino, da sé si chiama ; che si autorizza a chiamarsi ma, che se dico, io, non sento e non mi sento rispondere, non so più cosa son cosa faccio, or di foco, ora sono ghiaccio, un ospite ficcato là dentro nella ¿mia? scatola cranica, o coinciso in quell’ente radiopàco che alcuni chiamano mente ; ma io, un azzardo dire che esisto se esisto e come ( non so più cosa son cosa faccio), di io non saprei darmi una configurazione ; forse forse è solo una metafora formulata da una metafora che aspiri ad aleggiare sulle acque anch’essa ; e vedo, ma pure è indecidíbile chi che vede, insomma è visto quel tizio sul fondo di uno specchio e che dallo specchio svanisce, e tutto ça finiscə – del cervello che raccoglie e screma e lega e collega insieme senza altro criterio che quello dei colori e della wahlverwandschaft, l’elettiva affinità tra l’ultima, la prima, le immagini intermedie e i frammenti. Al parecer, come un sogno, l’universo spegnerà la luce tra un miliardo di anni, l’ultima, la più debole luce, dopo che tutte le altre saranno già apagate, amen addio black out ; con facile previsione sempiterno. Salvo che l’universo non nasconda qualche risorsa di energía inesplorata per cominciare da capo in altra forma o modo. Gas stellare che si scalda ed espande, si agglutina, compatta, solidifica qua e là : quel genere di genesi. Un’opra senza nome. Ohi nuove eve oh adami, ohi nuove miscredenze, foglie di fico e dinieghi. Oimeméni. Senza scopo. L’universo ha da sempre la vocazione del balocco, del meccano di un dio cui è difficile attribuire qualunque aggettivo e ancor di meno una virtù qualunque ; io, per me, sono colui che mi si scrive.»
Isola di un arcipelago di isole, esule di una tribù di esuli ghibellini e fuggiaschi da quell’infausto 1939 in cui si vide avverarsi il sogno negromantico della fine di ogni possibile socialdemocrazia e dall’affogarsi ogni ipotesi di resurrezione dalla dittatura in Spagna – sì e vabbè ma dimmi te se davvero è finita o se al contrario è con limite tendente all’infinito la guerra alla democrazia, e se il sol dell’avvenire ormai sia una nana rossa, l’ombra di una fiammella in un lago di notte nera, e se non viviamo in un’Europa, già cimitero, ora campo di indecomposti, riesumati, riesumandi e di esumati da sé con le ugne e li denti – si scopron le tombe si levano i morti – il mio vecchio amico ogni giorno compilava il suo romanzo, e quello che ti son letto ne è l’incipit. Il titolo, Göbekli Tepe – collina panciuta – non saprei dire a che cosa volesse alludere se non a quella misteriosa archeologia turca. Lui, mai volle spiegarmelo e di leggere tutto il romanzo non ebbi modo, ché me ne aveva tradotto dallo spagnolo solo la prima cartella, quella del sogno. Il resto del manoscritto poi, poi ti dico.
Ingufalìto, tremante fino a giugno di un freddo atavico, inspiegabile, corretto da diversi strati di maglioni, ne potevi contare fino a sette uno sopra l’altro e sopra la camicia di flanella con sotto la maglia di lana, ho freddo ho freddo, ti sarebbe sembrato di sentirne il mormorio tra sé benché fosse vero che la casa non che fosse fredda ma tale che, se è disagevole per un osservatore restare fermo, ad ascoltare a guardare senza fare niente metti un pittore che dipinga, certo per un freddoloso che scrive, eh bè subito i crampi ai piedi. Lui, il mio vecchio amico scriveva, dovrei dire scrisse su carta 21 per 29 e sette, messa per il lungo e tagliata a strisce, in ogni striscia soltanto una riga scritta con la stilografica ; due a volte, fermate dal morsetto dell’ipotassi e tali che occorrevano, vedevo, diverse strisce poi per comporre una frase, per non dire di un periodo complesso, di un capoverso ; pure lui ci riuscì. Tu che ti intendi di musica e sai che cos’è l’armonia, immaginati che la scrittura del mio vecchio amico fosse armonica, in verticale, indifferente alla linea melodica che tuttavia emergeva dalla profondità delle sovrapposizioni di righi. Una stampa giapponese. Quel sogno con cui cominciava il romanzo era l’emblema, il manifesto di tutto il romanzo. Credo di poterlo dire.
Una bella stilografica, bella, una Watermann, se scelta in onore di altri, diversi e più fortunati fuggiaschi non saprei se sì o se no ; la vedo ancora, con il suo cappuccio dorato, a riposo nella scatolina di legno originale. Nella stanza di lavoro del mio vecchio amico, ci stava un tavolo da cucina di recupero, grande io dico un 160 per 100 e col piano di formica di un giallo lampante, tavolo che si era adattato al nuovo ruolo di scrittoio come Tancredi al suo di capitano ; due sedie di legno, non saprei di quale varietà né delle sedie definire lo stile, e un divano, cioè lo scafo di un divano a molle, cui mancava del tutto anche una parvenza di fodera. La tela grezza e imbullettata tutta torno torno alla cornice dello scafo rivelava le molle che la tenevano tesa sulle cinghie di sotto. E punto. Le strisce di carta, il mio amico le appendeva con sollecitudine una dopo l’altra come calzini, su fili tesi da muro a muro. Tu che sei figlio del digitale non puoi nemmeno saperlo, ma un tempo i fotografi stendevano le pellicole fresche di sviluppo e fissaggio ad asciugare su cordini eguali a quelli per il bucato fresco. Per evitare che si arricciassero su loro stesse le pinzavano per il bordo inferiore. In controluce danzavano le immagini negative dei volti, degli oggetti, dei paesaggi. Ma è possibile che a dirti immagine negativa a te venga in mente qualcosa di brutto. E invece si trattava dell’inverso dell’immagine che sarebbe apparsa nella foto finita. Solo che, lasciamo stare sì, non ti interessa. La gente ha sempre amato fotografarsi dopo passato il tempo del ritratto degli illustri di famiglia ; il Moroni, il Boldini avrebbero messo in scena gli stessi loro personaggi davanti a una fotocamera. Immaginarsi il cavaliere in rosa in stile Cecil Beaton. Un my fair lady a Bergamo alta.
Non avere uno scopo non è poi così grave. Basta non inventarsene. Metti i leoni : mangiano ogni tanto una certa quantità di cacciagione, banchettano per quel po’ da schifo, poi tranquilli a guardare l’orizzonte, oppositori o aggressori in vena di combattimento non se ne vedono in giro. Non ci sono bestioline che possono nuocergli. Insomma una vita tranquilla. Dal punto di vista alimentare nulla di che preoccuparsi, basta aspettare che passino delle gazzelle ma meglio le lente zebre, qualche grulla che non badi alla propria personale incolumità e ahmm scatta la fauci e via è fatta : per tutto un bel po’ di tempo tutta la famiglia a digerire e rimuginare sul nulla. Avranno feci dure i leoni con tutta quella carne, non potrei fare il leone. Mai mangiato carne o pesce o cose morte ammazzate o di suo, io, nemmeno durante la guerra, un po’ perché si digiunava con metodo e per necessità, un po’ perché il poco di rape o patate che ad alcuni sembrava concessione alla miseria a me pareva benvenuto banchetto. E mai bevuta una goccia d’alcool ; sì per prova ; e già da tirocinante a psichiatria visti i tremens degli ubriaconi, e negli addomi aperti dal patologo visti i fegati, o palpati da fuori, sempre acqua di fonte io ; credo peraltro che l’umanità tutta con l’alcool sia stata imbambolata, la religione prepara l’anestesia e l’alcool il coma farmacologico ; morti viventi, vederli, fuori dalla messa e via all’osteria o a casa, che è peggio in fondo, il focolare dà l’alibi del cristo appena risorto e che butta vino dal collo del suo di sé bottiglia. Del resto solo a vedere i vecchi in spritz fuori dai bar alle undici, apoplettici in permesso, tutti fegati titanic che piano piano affondano. Ma del resto, vedi qualcuno sobrio in giro, io no. Mi fanno pena i giovanotti mondani con il loro intrùgliolo colorato in mano alle sei e mezza, aperitivo della morte che verrà, brindisi sulla tomba, oh oh i bei fegati fatti su nel grasso, pronti per la cottura al forno crematorio. Questi e altri simili discorsi erano le improvvisazioni del mio vecchio amico. Qualcuna credo venisse e fosse stata travasata nel suo libro. Non voleva che parlando gli chiedessi, come va il romanzo, ma, come va il libro. Lo intendeva definitivo più della Zauberberg, il cardine immaginario tra le parole, alla ricerca , e del tempo perduto. Il libro.
Quando gli chiesi una o due volte di chiarirmi la trama o la storia o l’azione, mi rispose indispettito, e con la mirata dello psichiatra, Non c’è storia, non ci sono azioni ma circostanze. Del resto dopo Proust sono le circostanze a costituire il senso alla narrazione. Le circostanze indicano, infatti noi diciamo enseñan, lo spagnolo è più adatto come il latino e il tedesco a definire. L’italiano si perde in congetture tra mille sfumature, che peraltro sono proprie al parlato lirico e curiale che vi distingue, gli italiani, siete preti per natura. Le circostanze quindi fanno, significano la direzione. L’azione è roba da tre moschettieri. Peraltro che circostanza si reifica tra questi e vent’anni dopo. Lui parlava e scriveva tutte minuscole. Non riconosceva al nome alcun diritto alla maiuscola. Non so perché. Ma ho una teoria. Siccome la sua scrittura era musicale, contava per lui l’intonazione che avveniva dopo, leggendo. La partitura come indicazione. Ogni testo è pretesto, così ripeteva, Un pretesto.
C’erano, non si possono dimenticare, i gatti, dappertutto nella stanza del mio vecchio amico, sul termosifone enorme coperto da una trapuntina per bambini, accoccolati da lui sul divano, uno, il suo favorito, rosso con un occhio verde e uno no, che lo vegliava accoccolato sulla carta dello scrittoio, o altrimenti nel suo giardino. Sempre con l’aria poco a loro agio come se camminassero nel fango, anche all’asciutto, infastiditi sempre da qualcosa, i gatti ; come si rammaricassero che il terreno non fosse di velluto o sempre come il parquet di casa. I gatti, ti dico, detestano la natura. O così pare, hanno adottato la cultura della comodità, cioè la cultura tout court. La riflessione. I gatti sembra che abbiano in cuore sempre nuovi romanzi, i romanzi del secolo, romanzi che non possono scrivere, li hanno tutti nella loro testa e nessuno potrà mai leggerli. I gatti sono le tigri della povera gente, oh come gli piaceva, al mio vecchio amico, ripetere questa frase, non credo fosse del tutto sua, e comunque questi animali meditativi erano i suoi relativi minori.
Lo aveva in testa il suo roman, il suo libro, striscia dopo striscia di carta appesa. Ti dico peraltro che D’annunzio, l’italiano con l’elica, il suo Notturno lo scrisse in ospedale, semi cieco per una ferita alla testa e orientandosi con le dita su lunghe strisce di carta fermate a una tavoletta da scrittura. Insomma inutile stare a spiegarti. Il mio vecchio amico si aggirava lungo questa o quella delle corde da stendere, leggendo e staccando da quel capestro ora uno ora un’altro foglietto. Pizzìni di ognuno dei quali aveva a mente il come e il quanto. Poi mettere insieme, su fogli a3 lavoro di montaggio con coccoina, sai mica cos’è te. Strisce intervallate. Con in mezzo lo spazio per farci stare un’altra riga scritta, e un’altra ancora, un’integrazione. Procedimento lentissimo il suo, un editing di artigianato. Poi piano piano, un foglio alla volta ricopiava a macchina, una piccola lettera 32 sulla quale batteva ma a una velocità da dilettante dattilografo. Dattilànte. Incredibile da vedere la velocità, e non si sa come che non guardasse né il foglio da scrivere, né i tasti ; vedevi che le lettere e poi le parole e tutto gli si formavano da dietro gli occhi, che dal cervello si riversavano sul foglio volante sul tamburo della macchinetta 32. Un pianista. Copiava, ma rifaceva spesso, all’impronto.
Mai stato amabile ma a me piaceva, ti dico, il mio vecchio amico. Con il volto scritto fino all’ultima ruga, gli inglesi del resto dicono lines della pelle. Un volto dipinto in sanscrito, san scritto.Un anticaglieria di parole che gli affioravano sul cranio rasato. Ne sto parlando come me lo mostrava la mia percezione di allora e adesso la mia memoria : una creatura trapassata remota, tatuata da milioni di parole che peraltro nessuno poi ha mai letto, del resto scriveva nella sua lingua madre, lo spagnolo. Per il suo scrivere è morto. Detestava i vicini come non si amano i virus. Prova a immaginare la sua casa. Di fianco un chiasso buio di notte, su cui davano delle casette a schiera, e forse a cento metri il capannone abbandonato di un carrozziere dove dentro adesso c’è un Carrefour express, un andirivieni di africane e latinas risultato delle gentrificazione del quartiere e che vanno a prendere biocìbi e harìssa per le loro padrone interior designers e intano gli razzolano il canino, un volpino petulante, o un molossòide di quelli che ti spaventi solo a vederli che ti guardano, o te o la tua giugulare.
Vabbè la casa era una villetta che i rumori della strada di media importanza non toccavano, non tanto, protetta da un giardino mica piccolo. Non bello, adesso meno, lui lasciava crescesse ogni pianta che ne avesse la voglia, non impediva che la natura prendesse il sopravvento, una pianta sull’altra, un’erba magari mala sull’altra. Mai visto intervenire e, sì in estate talvolta scendeva giù dai gradini della veranda a vetri colorati che si costituiva in vestibolo della casa. Guardava e non toccava. Una casa Usher ti dico. Lui viveva con la pensione di psichiatra, per anni al manicomio di ***. Lo aveva fatto per tutta la vita ; oggi gli ospedali sono soppressi, lui era stato al suo tempo a bottega da omenóni della medicina, sai, ma si sentiva allievo di Gregorio Marañon, di Ortega y Gasset. Non saprei dirti che cosa c’entrassero con la psichiatria, ma allora i medici si costituivano umanisti con l’abilitazione all’uso dello specillo. Filosofi naturali. La moglie, Lucie, una parigina conosciuta nei primi tempi dell’esilio, era molto bella e molto in cattiva salute, lui la chiamava Luciente, simpatica a vederla lì in piedi al limite della verandina di casa a salutare i pochissimi ospiti, me per esempio, con i piedi en dehors. Ex- ballerina, si va in pensione presto da ballerini, ma insegnava in un paio di scuoline di danza. Impossibile capire come stiano in piedi le ballerine, tutto un gioco di equilibrismo dello scheletro dentro una muscolatura di titanio. Le ballerine, vanno osservate da lontano e sembrano e molte sono angeli, voglio dire che ti raccontano la loro caduta accidentale in questo mondo, le ballerine non hanno i piedi per terra. E se si esclude che molte hanno una vulva con tutti gli accessori interni ; immagina, non lo diresti, che ano non hanno o se sì serve poco, sono sicuro, e poi quei meravigliosi seni impuberi. Le ballerine svettano, non hanno cascaggini, pendulanterìe.
Insomma il vecchio era scritto, uno scritto che nessuno ha mai letto, ti dico, però un editore l’aveva. Cioè un produttore. Che di farlo editare aveva promesso, che avrebbe mosso certe sue conoscenze. Un industriale spagnolo di prodotti per campeggio, fin bombolette di gas e con il vezzo della letteratura. Dopo avere letto poche pagine del manoscritto, ancora agli esordi, gli aveva regalato la lettera 32 ma con la tastiera italiana, sicché poi, pagina dopo pagina, al vecchio toccava aggiungere le ñ. Uña per uña, mi disse, con uno di quei giochi di parole – hai capito che alla lettera è unghia per unghia ma non è lettera che coincide con il significato e saddìo quel che può essere il significante – giochi di parole e paradossi che lo facevano sghignazzare e di cui se ne riconosceva maestro. Ho imparato dai matti, i matti sono tutti un gioco di parole, la loro malattia è un gioco di parole. Si tratta di indovinare la fonte. E non ci si riesce. Sono per eccellenza della stessa materia di cui sono fatti i sogni.
Ha pagato salato il suo esclusivismo. Il suo stare dentro un giardino. I ragazzi del quartiere gli buttavano le loro caccacce in sacchetti di plastica oltre di là dalla siepe di cinta. Tu mi chiederai ma perché. Non c’è un perché dotato di un solido appiglio con il reale. Così. Per adorazione del male. Si comincia col lanciare escrementi e si finisce per ridurre a escremento, e già in ispiritu, chicchessìa. È l’astio non per il diverso ma per l’altro. Quello lì. Il doppio di Narciso che secondo molti occupa il loro spazio. Che esiste. Che è essente. Essenza. L’anofele odora il professore da pungere. Così una volta tentarono di ammazzargli i gatti. Coi bocconi avvelenati. Ma i gatti non sono cretini, fiutano l’inganno, ancora prima che il veleno nel boccone tossico. Il mio vecchio amico quasi ci lasciò le penne per la paura. Scagliò in strada le esche avvelenate che rimasero lì sul marciapiede a marcire, sicché i passanti girarono a largo per un pezzo. Amava i gatti più di sé stesso.
Un giorno gli morì Luciente Lucie. Non mi disse mai che età avevano né lei né lui, ma si era laureato prima del ’36, fai un po’ di conti. Era vecchissimo. Il libro non vide mai la luce. Il suo finanziatore sparì, generosamente però, dopo avergli pagato una bella sommetta solo perché scrivesse. Parve un patto col diavolo, vero. Un diavolo che se ne andò. Precipitato, infatti la fabbrica di materiali per campeggio risultò fallita a una mia ricerca. Luciente Lucie aveva insistito in vita perché il mio vecchio amico facesse fare al manoscritto il giro delle sette chiese, così diceva lui degli editori pomponàti, in toga e coturni e bilancia sempre pesata sul piatto del marketing. Ma diceva, attento che io scrivo di preciso per, non, essere pubblicato. No, non per non essere pubblicato, devi dire così, per. non. essere pubblicato. Il non devi sospenderlo tra un inspiro ed espiro. Se ci fai caso cogli la differenza , se pensi al ritmo e alla dizione. Non. lo devi dire alzando di poco la voce come per andare di slancio sulle punte e poi scendere. Non. Il manoscritto alla sua morte – non – si è ritrovato.