L’ElzeMìro – Mille+infinito – Un racconto semplice per Natale

Allora certo è che tu mi chiederai, La storia la storia, la storia di Natale. Sì sì è natale è natale gli angioletti batton’ l’ale, eccome no vorresti sentirti raccontare qualcosa che abbia il sentore del burro dimenticato al caldo in cucina ; e tra il ventiquattro e il ventisette vogliamoci bene poi, in mancanza di filo spinato e trincee cui fare ritorno, tutti comodi in suv a sgommare per sgomitare su e giù dalle usate piste, di sci. Qualcuno da lasciare indietro c’è sempre. Le storie sono così, e qui in verità storia, hmm qualcosa sì ma, voglio dire che nella tua testa rientrerà nel giro del pettegolezzo.

Marlowe. Prese a chiamarlo Marlowe dacché lo conobbe e domandarsi perché è inutile, come è inutile e senza opportunità di ottenere risposte convincenti, chiedersi se dio esiste. Cioè se sta da qualche parte, perché esistere, il verbo viene a dire proprio questo : ex sistere, saltar fuori, presentarsi e altre sfumature del genere. I furbi dicono che dio è immanente, cioè che è essente, essendo essere, ed è forse per questa interpretazione che a Gesù attribuiscono proprietà quantiche, come del gatto Schrödinger disse che a un tempo è vivo e morto dentro una scatola cosmica ; così dunque quello, non il gatto lo sfortunato del Golgota è allo stesso tempo morto, nel momento, e vivo nell’eternità – ti lascio le sottigliezze teologiche di cui sei esperto tu not me– e insieme rinascente bambolino, l’unica età che varrebbe la pena di vivere. Insomma uno e trino, eccolo sistemato. Marlowe invece, no, Marlowe, lui, era un bassetto muscoloso e nonostante il nomignolo, non aveva né ebbe alcuna attitudine per la letteratura ; tuttavia, si potrebbe dire, con tutti i condizionali grammaticali e fattuali del caso, che fosse lui in sé e per sé una letteratura. Okay, meglio partire dal principio e fidati che la storia è breve, non è edificante ma può occupare i vuoti, senza pretendere di scansarne il vuoto, della conversazione al convivio natalizio.

Ora tu prova  a immaginarti questo che segue : immaginati un uomo nei suoi cinquanta, o forse quarantasette forse cinquantadue ; skinny dicono gli inglesi, ossuto, pallido per natura il viso, un labbro voluttuoso e l’altro affilato da un qualcosa in più che intelligenza ; intelligenza che peraltro gli sbrodolava soprattutto dallo sguardo a ogni occhiata, milioni di coni e bastoncelli seminati, si vedeva, a stuzzicare la crescita di altrettanti neuroni in gestazione ; non alto l’uomo, forse 170 centimetri. Tutto l’imperfetto in uso è funzionale a vicende davvero passate e piuttosto remote, quindi anche da passato remoto. L’uomo, lo so che ti interroghi di già sul ma chi mai sarà, presto detto fu un musicista ; non un qualunque prestidigitatore della tastiera sai, ma un solido compositore, per essere precisi uno tra i più contemporanei tra i contemporanei di quel tempo lì, imperfetto e remoto. Come un tempo le corti e i salotti, se ti dice qualcosa ricorda madame Verdurin, il Maestro, lo chiamavano tutti così con una emme geneticamente modificata davanti – provati a dire mmmaestro – ahi ahi lo corteggiavano tutti, vecchie duchesse e circoli coronati è ovvio, ma soprattutto i teatri e le società di concerti, le più rinomate, le sole cui alla fine lui desse retta per commissioni e prime esecuzioni mondiali assolute dalle quali traeva una buona parte dei suoi guadagni. Lautissimi peraltro, ché alla composizione per così dire ingioiellata, il Maestro ne associava una più pop, o marketing oriented se vuoi, di musiche per film. Gli piaceva assai tuttavia perché sapeva che un film dipende da una buona colonna musicale, che le immagini da sole stanno lì appese con gli spilli ma poi è con orchestrazioni eroiche o sentimentali e con trovate armoniche o di semplice sound che si mettono in subbuglio tutte le diastole e le sistole allo spettatore ; gli piaceva perché in ogni soluzione scorgeva i limiti ma anche le accortezze della sua arte, le sue innumerevoli per non dire infinite possibilità : spesso se ne stupiva ; e talvolta, il trucco che usava di infilare in un brano una serie o usare un modo o un suono concreto – metti di una goccia d’acqua – e però far sì che nessuno potesse rintracciare l’arditezza dell’impasto e anzi la sentisse naturale, gli dava una soddisfazione porca : la stessa di Ulisse-odisseo nel contrabbandare i compagni sotto il naso di Polifemo e poi fargli gridare che Nessuno, nessuno nemmeno il destino, gli aveva fatto nulla di male. Si diceva geniale da sé allo specchio, e tra questo e quello, il Maestro si era costruito una vita da Liszt, da Wagner, da Verdi, da Rossini. Ovvero sia di qualche gradino sotto quella di un imperatore romano, ma non così tanti.

Vicino alla celeberrima villa di un vero imperatore, Adriano, il Maestro aveva trovato e si era potuto permettere di rifare e farcire come un wafer un casale immenso, completo di sala di prove e di registrazione ; il Maestro non era pigro ma amava la pigrizia e l’idea soltanto di spostarsi per andare a Roma in auto, non guidava, lo affaticava. Il fondo era chiuso da un folto di pini memori di quelli di Respighi, parecchi ettari attraverso i quali non poteva passare rumore alcuno né arrivare disturbi dalle strade tutt’intorno, per lo più provinciali o comunali oicche è. Per usare una metafora, il Maestro viveva in una specie di koan dove una bacca che cadesse da un ramo o l’improvviso arrivo di una pioggia, un fruscio d’ali, erano un evento sonoro che egli poteva tradurre in, poche magari, ma solidissime non meno che aeree minime e seminime. Protetta dagli aghi di pino e dalle coccole aulenti di una corte di profittatori ed eunuchi, che il Maestro manteneva senza badare a spese e agli interessi di quei cortigiani, la villa era nota nel circondario e, di più, appetita assai dai birichini di provincia la sua grandissima piscina, quasi un invaso, che il Maestro aveva voluto fabbricata in modo che alla vista di tutti ricordasse, non saprei se dirti la forma, il perimetro, l’immagine di un fallo in erezione, quindi hai capito quello una banana, completo dei due tondi testicoli da una parte e delle fattezze di un grande glande dall’altra. Le vasche dunque si potevano fare lungo una traiettoria curvilinea. Il Maestro appunto, non ti sembrerà strano, con l’Adriano imperatore condivideva la venerazione per gli Adoni e i loro ammennìcoli. Ebbene, Marlowe fu uno di questi Adoni, l’ultimo, il più importante. Promiscuo alquanto durante una gioventù allora ignara, per non dire immune da Aids, o Sida, nei suoi anni di allora e quindi di annunciato declino, il Maestro aveva trovato in lui, col Marlowe, la quiete di un amore ben compensato, esclusivo e fedele. Molto simile a quello che molti tra gli animali, si sa gatti e cani in primis, sono capaci di dedicare all’umano. E che cosa ci trovino in noi anche tu converrai che non si capisce.

Dunque Marlowe. Forse perché al tempo del loro incontro, il Maestro era al lavoro su  un’opera nuova, il Tamerlano, un’opera balletto, con molti e diversi intermezzi di danza alla moda di Molière, ovvero un’operetta ovvero un Singspiel su un tema di Marlowe, quello antico e grande abbastanza da scrivere Tamerlano il Grande. A motivo di quel Marlowe antico e birbante, c’è da pensare quindi che Marlowe, un bonaccione imberbe e non più alto di centosessantacinque centimetri, si trovò con addosso quel nomignolo che lo ingigantiva senza merito alcuno nell’ambito delle lettere. Al contrario di molti italiani, Marlowe infatti non scriveva e non svolse mai niente di più lungo che un temino sul pessimismo di Leopardi a scuola, non si auto-pubblicò romanzi di nessun colore ; le montagne, bah colline al massimo e, vides ut alta stet nive candidum Soracte passeggiatine al monte Soratte (metri 691 s.l.m.). Né Marlowe si dilettava di poesia, quella debordante di Ii e di Io di cui riempiono i quaderni i dilettanti, e faceva anzi fatica a condensare in un’unica  puntata un messaggio, sms o texto. Era nato invece ballerino, una passione e una promessa da piccino ; ma quando tutti i piccini prendono a svettare, a dodici anni lui si inchionzò, si inchiodò per così dire alla croce della sua statura e restò inadatto perciò alle prime come alle seconde parti e alla fila ; nel corpo di ballo dell’Opera di Roma, al quale tuttavia apparteneva, il modello anatomico era ed è la silfide, l’elfo : per il danzatore la morfologia di genere è una dannazione cui tende a sfuggire con la mimesi e l’inventiva. In ogni modo, Marlowe molto prima dei vent’anni si trovò fuori dal mercato dei laghi e dei cigni. Per un po’ campò con e per la generosità della mamma, vedova e con due pensioni. Poi poco per volta trovò il modo di lavorare come assistente coreografo all’Opera, e di rendere la mamma felice della fatica che lei, vedova di un tenente di vascello, aveva fatto per rallevarlo e proteggerlo nella sua incerta carriera, e appagata da frigoriferi nuovi, televisori bellissimi e cuffie per ascoltare, era un po’ sorda, di gran marca, e lavatrici ultimo modello. Lavora che ti lavora Marlowe sgattaiolò anche a Cinecittà dove certi registi presero ad apprezzarlo perché sapeva trattare con loro ed era capace e aveva gusto nel realizzare quelle scene di massa, fossero di soldataglie, bambini, inquilini di case popolari che ai registi riescono male. Fatti certo che molti registi devono la loro fama ad altro che il sapere dirigere, ché si baloccano con le loro idee, con i significati, li sposano e lasciano ai collaboratori il lavoro sporco di renderli in qualche modo tangibili. Tutta l’arte del regista è furbizia e astuzia nel circondarsi di persone capaci. Poi ci sono quelli che non sono né furbi né attenti al contorno, mentono di saper fare da sé e dio ne liberi ; spesso non si accorgono di copiare il lavoro altrui perché oltretutto sono tutt’uno con la bugia di cui sono i primi beneficiari e protagonisti. Il resto non è silenzio ma, come quasi tutto oggi, lo scalpiccìo diffuso del marketing. Se Marlowe invece aveva còlto e scelto per la sua vitarella il tono minore, nondimeno proprio per questa scelta risultò il braccio destro e sinistro per eccellenza, uno che con le sue manone levava le famose castagne dal fuoco, e tranquillava chi, tutti, temesse gli si volessero rubare il mestiere o il lavoro. Era taciturno e ubbidiente Marlowe, riflessivo, stratega e tattico e sopratutto, capiva sempre al volo che cosa si voleva da lui. La frase ti suona un tantino ambigua ma assicuro che non ha alcuna interpretazione corretta che non sia la più diretta e facile.

Ora Cinecittà fu il luogo dove lo scoprì il Maestro. Il quale vide il nome e il destino di Marlowe in cielo ascritto come la Teresa santa di Lisieux vide il proprio di bambina in una stella. Fu un incontro folgorante, un lampo appena d’occhi, quelli d’aquila del Maestro e quelli d’Ávila in estasi o di pastore errante d’Asia di Marlowe ; chepperò ti dico, in quel designato momento era inteso Rocchi Bernardo, via Nicòtera 35, 00195 Roma. Dopo un corteggiamento piuttosto protratto cadde l’ultimo dei sigilli che la discrezione appone a se stessa, e Rocchi-Marlowe si trasferì in villa dal Maestro ; non senza pianti e invocazioni alla Madonna, e se lo vedesse la buonanima del tenente di vascello tuo padre, della madonna madre. Madonna che si ricredette sul conto del Maestro non appena ei la invitò in villa per la celebrazione di una sorta di matrimonio putativo e morganatico con molti invitati che contavano del mondo della Roma che contava, si invitava e lustrava i titoli e illustrava le accademie, e che lustrarno gli occhi alla Madonna, ma non di pianto : lei accettò il Maestro come genero in pectore e finché visse, visse negli agi dell’appartamento di via Nicòtera che il Maestro, oltretutto valente pittore e architetto, Renaissance way, ebbe a ridisegnare per lei e rifare e allestire ex novo dalle maniglie alle fèdere. Lei ne fu beata, il Maestro prese a chiamarla Santa e fu così che la vecchia madre di Marlowe visse fino alla morte, serena,  felice e contenta.

Il Maestro aveva agglutinato in sé i caratteri dell’artista polimorfo, del Giulio Romano e del Duca  insieme. Del resto le sue partiture erano arabeschi, vergati ora con pennini ora con pennelli e pastelli colorati, dove la notazione musicale si fondeva in un’unico organo di sovrapposizioni semantiche. La villa peraltro era museo delle sue opere pittoriche, le sue,  di altri  che non fossero il Lotto o acquerelli shui-mo della dinastia Song aveva uggia.Bella  vita conduceva Marlowe insieme con il Maestro, sempre al suo fianco alle ovazioni dei teatri dove venivano presentate le sue opere, opere che, te lo dico, ascoltate oggi ti sembrerebbero esercizi di stile, fantasie in itinere di un bambino che deroghi dalle istruzioni del suo Meccano e, consumando tutti i pezzi e le viti e i dadi a disposizione, elevi al cielo della sua stanza sempre più alte e ardite gru, ponteggi o torri. Cose così. Che allora però, nonostante non fossero di facile ascolto, tuttavia piacevano. Perlomeno, dire il contrario non sarebbe stato buona educazione e furberia. La musica per film contribuiva al resto del successo. E  per concludere sempre in tema economia addomesticata, dal suo multiforme ingegno, il Maestro faceva anche professione di regista, professione che non gli era chiara nei suoi limiti e circostanze e obbiettivi, benché per lui musicista l’ambito fosse il melodramma. Ti apro una parentesi esplicativa : cerca di capire che nell’opera lirica the mandatory task è di far passare da destra a sinistra un tenore armato di spadone o spadino per il partiam partiamo a becco asciutto circa l’ipotesi sessuale sottesa alla presenza di un soprano, forzata, sforzata o concupita senza successo. Romantica si sa è la lingua dell’inappagato. Anche da questa attività il Maestro traeva del guadagno, non così importante ma sai, come disse quel comico napoletano, È la somma che fa il totale ; e nella lirica, proprio in Marlowe trovò la spalla e l’occhio ideali. Mentre lui il mmmaître si attardava a pontificare sul senso del colore in Puccini, o della banda in Verdi, ecco che sottile come un gatto nonostante la complessione, Marlowe gli sistemava il coro, tenori e soprani a sinistra, bassi e baritoni a destra, ne dirigeva il traffico, raccontava al soprano deliziose balle sulla psicologia del personaggio, mai esistita ma, per le sopranesse è indispensabile saperne ; poi fanno lo stesso le stesse cose : vanno in ginocchio e giungono le mani al cielo, invocano il baritono o un tavolo. Marlowe insomma sapeva come cavarsela. Poi il Maestro come il buon antico Perugino passava e metteva il visto si stampi all’ambaradàn. Successo certificato.

Avec le temps tutte le stelle da azzurre diventano rosse e nane, la villa di Tivoli s’ebbe a vendere e con il ricavato il Maestro prese con coraggio la decisione di comprare per Marlowe un bell’appartamento su due livelli, forse tre, a Orvieto, città alta, in faccia al Teatro Mancinelli, dove d’estate, ancora faceva seminari o stage(s) molto seguiti. L’ipotesi più economica di un’altra sistemazione in campagna fu scartata perché come tutti il maestro appassiva, rimpiccioliva, e l’ansia naturale che si instaura in ciascuno al non riconoscersi del tutto allo specchio la mattina, lo prese sotto forma di ansia da ospedale. Una notte sì e una no, il Maestro si sentiva morire ; fatto che dopotutto era da aspettarsi, qualche volta Marlowe lo calmava, altre volte era necessario correre al pronto soccorso per poi, dopo ore di attesa, tornarsene a casa con la sola diagnosi di attacco di panico. Dall’attacco si passò al disturbo di panico, vale a dire che il panico era quotidiano del quotidiano. A Orvieto l’ospedale era vicino. E alla fine servì. La prostata del Maestro prese a imbizzarrirsi. Fu necessario un intervento, neoplasia prostatica. Il seguito fu il pannolone ma Marlowe accudiva il Maestro con tutto la cura e la mancanza di disagio di cui è capace un’infermiera esperta. Il cancro si incistò, fiorì, si inerpicò su per tutti i canali.

A Marlowe restò la casa e alcuni ricordi, quelli che nel tempo non erano stati venduti, vendette la casa, troppo emozionale. Mise da parte i denari della vendita e con la pensione, perché nonostante il benessere non smise mai di lavorare in modo autonomo, se la cavò abbastanza bene preferendo all’Italia un paesino delle isole Azzorre. A sera molti  vedono un giovane anziano che dalla casetta in affitto camminicchia fino alla spiaggia del paese, orientata più o meno a occidente. Una marea d’acqua e la luce si declinano nei suoi occhi. Poi a buio, e non di rado, va a cena in una trattoria lì vicina, O raião. Il regno. Punto.

 

 

 

 

 

Pasquale D'Ascola

P. E. G. D’Ascola Ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: Le rovine di Violetta, Idillio d’amore tra pastori, riscrittura quet’ultima della Beggar’s opera di John Gay, Auto sacramental e Il Circo delle fanciulle. Suoi due volumi di racconti, Bambino Arturo e I 25 racconti della signorina Conti, e i romanzi Cecchelin e Cyrano e Assedio ed Esilio, editato anche in spagnolo da Orizzonte atlantico. Sue anche due recenti sillogi liriche Funerali atipici e Ostensioni. Da molti anni scrive nella sezione L’ElzeMìro-Spazi di questa rivista  sezione nella quale da ultimo è apparsa la raccolta Dopomezzanotte ed è in corso di comparizione oggi, Mille+Infinito

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