
Autore: Mario Benedetti
Data di pubbl.: 2019
Casa Editrice: Nottetempo
Genere: letteratura sudamericana
Traduttore: Maria Nicola
Pagine: 329
Prezzo: € 16,00
“Tu proverai siccome sa di sale / Lo pane altrui, e com’è duro calle / Lo scender e salir per l’altrui scale” (Dante, Paradiso, Canto XVII).
L’esilio. Chi parte, sa di lasciarsi alle spalle, per ragioni di forza maggiore, amori, amici, parenti, abitudini, relazioni, le strade dell’infanzia, le case abitate. Fuori dall’uscio, lo attende un mondo ignoto. Nell’esiliato, persona bandita per aver espresso opinioni cui è negata la cittadinanza, per aver difeso diritti e libertà, o per essere, per propria costituzione, un soggetto indesiderato, può insinuarsi, demone insidioso, il senso di colpa verso chi resta. Il resistente in patria si espone al rischio della prigione, della tortura, della morte, della sparizione nel nulla. L’esilio è forse simile a una fuga, ma è una scelta che ha in sé l’aspirazione contraria: il ritorno. La distanza opprime e incita al dinamismo. I cari volti, i luoghi vissuti, i consueti colori del cielo si trasfigurano, da immagini nitide, in ricordi sedimentati nella memoria, facoltà umana non passiva. L’immaginazione mescola le visioni passate a quelle presenti. Al fine di tornare, con la mente e con il cuore, è necessario cimentarsi nell’arte del ri-adattamento, il desexilio, termine coniato da Mario Benedetti, uno tra i massimi scrittori sudamericani del Novecento. Riabbracciare una madre divenuta anziana, accordare le esperienze fatte altrove con i momenti negati, riprendere i contatti con i compagni di lotta marchiati dal dolore, assegnare un peso alle sconfitte, comprendere i motivi di un fallimento collettivo: niente di tutto ciò è semplice. Servono solide Impalcature, per tenere in piedi una struttura instabile.
Impalcature non è affatto un romanzo “classico”. Un narratore onnisciente alterna la propria voce a incursioni poetiche, a reportage giornalistici fittizi e a momenti epistolari. Mario Benedetti affida ad un suo ‘eteronimo’ chiamato Javier (non casuali i riferimenti, nel testo, a Fernando Pessoa) il compito di mettere insieme i frammenti di una vita in settantacinque tappe e di rappresentare il quadro del suo ritorno in Uruguay. Javier, esule in Spagna, dopo una separazione decennale trova una nazione finalmente liberata dal giogo dell’oppressione militare. Intanto, il matrimonio ‘madrileno’ con Raquel si è esaurito, in parallelo con l’affievolirsi della militanza politica. La collocazione temporale è precisa: l’incanto dell’espatrio coatto si rompe all’inizio degli anni Novanta, quando le ideologie crollano e la sinistra di derivazione marxista smarrisce l’orientamento, destabilizzata da rapidi mutamenti economici e sociali. La democrazia, in Uruguay, ha pareggiato i conti, scontentando vincitori e vinti, mentre il libero mercato impone le proprie regole, implacabili, a masse fiacche e inebetite. Javier si installa in un sobborgo quasi disabitato, nei pressi di una spiaggia affollata dalla solitudine dei gabbiani, con il solo conforto di un cane, il prezioso Bríbon, tanto da guadagnarsi, nel clan degli ex perseguitati, l’appellativo di ‘Anarcoreta’.
Perché Anarcoreta? Se non aveva nemmeno letto Bakunin o Kropotkin. Forse lo chiamavano cosí perché non si era mai identificato in nessun gruppo, partito o movimento di sinistra. Era cosí anarcoreta che non si era trovato bene neppure con gli anarchici. Qualche volta li aveva aiutati, ma aveva aiutato anche i tupamaros e, sia pure meno spesso, i comunisti. Purché la sua indipendenza fosse salva, non rifiutava mai di dare una mano. Con ogni gruppo sentiva qualche affinità (piú in quello che rifiutavano che in quello che sostenevano), ma le sue divergenze venivano alla luce non appena si profilava la pesantezza del mattone ideologico. Marx gli stava piú simpatico di Engels; e Lenin, certamente, piú di Stalin, ma non era mai riuscito a leggere fino in fondo Il Capitale, del resto aveva l’impressione che appena lo 0,07 per cento dei marxisti convinti e confessi lo conoscesse in modo approfondito.
Benedetti insiste sull’importanza della dimensione corporea, la prima impalcatura. Corpi sfiancati dai colpi ricevuti dagli aguzzini, corpi ripiegati nella sofferenza, timorosi di dare e di ricevere piacere, corpi rivitalizzati e disposti alla scoperta reciproca. Javier re-incontra Rocío, compagna di battaglie, sorella di antica fede politica, e con lei intreccia una relazione autentica e tenera, un passo verso il futuro che sorprende entrambi e che si rivelerà essere un sentiero interrotto. La potenza di agire, repressa, annichilita dal potere, risolve la sua crisi sciogliendosi in un affetto inaspettato. L’impegno pubblico che rifluisce nel sentimento privato è un sintomo di debolezza? O forse l’amore, nel suo essere apertura esistenziale verso l’altro, nel suo stagliarsi all’orizzonte come antitesi alla chiusura, è la sola risposta politica praticabile, ultimo baluardo da opporre all’individualismo consumistico?
I compagni con cui lavoravo in passato (tu, per esempio) se ne sono dovuti andare, e molti non sono tornati. Poi ci sono quelli che, come me, si sono fatti vari anni di galera, e da quando sono usciti si sono un po’ dispersi. Quelli che erano piú vecchi di noi sono diventati inguaribilmente scettici, e i piú giovani ci guardano come bestie rare.
Corpo, sogno, lingua e famiglia sono alcune frontiere lungo cui Javier si muove. Nei sogni notturni, l’anarcoreta incontra Rita, donna bellissima, simbolo onirico delle ingannevoli promesse dell’eros e dell’approssimarsi, furtivo, della morte. Nello scarto tra il castigliano adottato negli anni di esilio e lo spagnolo rioplatense riscoperto a Montevideo, Javier avverte la diversificazione dell’idioma e quindi la faglia culturale che allontana i mondi, Europa e America. La parlata straniera è un abito che non si veste mai con naturalezza e che, a tradimento, lascia nell’esiliato tracce esotiche. Nieves, la madre settantasettenne di Javier, Penelope attempata, colta e paziente, incarna il richiamo, permanente, delle radici. Fernanda e Gervasio sono i fratelli di Javier, emigrati da tempo nell’eden capitalistico per eccellenza, e circonfusi, nella loro riapparizione in Uruguay, da un’aura di fastidioso egoismo. Soprattutto Gervasio, direttore di un supermercato in California, pare aver assorbito, con realismo estremo, i valori e i principi da sempre osteggiati da Javier. Il capitalismo, nella sua grettezza utilitaristica, ha trionfato. La sentenza è scritta nella carne dei compagni. Trasformati, involuti, venduti o ravveduti, ognuno è comunque reduce da qualcosa.
Da molto tempo la paura è parte della nostra vita quotidiana. Credo che non ci libereremo mai da questa inibizione. Prima discutevamo di ogni cosa. L’atteggiamento individuale era parte di un atteggiamento collettivo. Adesso, invece, ciascuno rimastica in silenzio i suoi rancori, le sue amarezze, il suo panico, i suoi pregiudizi, le sue miopie. E di conseguenza è più debole. Abbiamo perso la fiducia, amico mio, la fiducia reciproca, e questo ci rende meschini.
Il passato è un tessuto cangiante e mutevole, una collezione di eventi accaduti, non per questo necessariamente terminati, con cui Javier instaura un rapporto dialettico. Il passato, così, si proietta sul presente. Una missiva dissepolta da un bauletto alza il velo su un amore clandestino della madre. Un pranzo al ristorante è l’occasione per conoscere i dettagli, inediti e sconvolgenti, della fine tragica del padre. Il torturatore di Fermín, miglior amico e confidente di Javier, sbuca dalle nebbie dell’oblio (ah, Borges!), alla ricerca di un impossibile dialogo con il torturato. Il desexilio è una parentesi caratterizzata da un’elaborazione costante delle parole proprie e altrui, una sospensione tra il trauma reale e l’ipotetica guarigione.
Mario Benedetti ha radunato gioie e malinconie in un meraviglioso breviario laico. I suoi trascorsi biografici, distesi in prosa o incisi in versi, sono tradotti in finzione e sublimati in purissima verità letteraria. Quanta Storia pulsa tra le righe, quanta umanità filtra, per arrivare a noi con immacolata freschezza! Impalcature. Il romanzo del ritorno è una lettura edificante, da inoculare, a mo’ di giusto contrappasso, nelle vene di tutti i rivoluzionari in giacca e cravatta che popolano, sazi e impuniti, le nostre latitudini.