Follie di Brooklyn – Paul Auster

Titolo: Follie di Brooklyn
Data di pubbl.: 2007
Traduttore: Massimo Bocchiola
Pagine: 265
Prezzo: 12,00 €

Sono una neofita di Paul Auster. Mi sembra giusto dichiararlo prima di avviare questo testo che, più che una vera e propria recensione di Follie di Brooklyn vuol essere una riflessione post lettura. Il motivo, è chiaro, mi trovo davanti a un nome sacro della letteratura contemporanea americana. Un autore che, a libro terminato, mi verrebbe voglia di incontrare per un’intervista. Purtroppo, Auster è mancato proprio quest’anno, il 30 aprile 2024 per cui non sarà possibile esaudire questo mio desiderio e temo sarà non possibile, tantomeno, scrivere qualcosa che tratteggi la sua opera e la sua scrittura in modo sufficientemente restituente.

Ho iniziato ‘Follie di Brooklyn’ in vacanza, quest’estate, reduce da un momento di sfinente stress mentale che mi portava ad aver voglia di leggere qualcosa ma non sapevo bene di che tipo. Un libro che mi catapultasse in una dimensione diversa dalla mia, in quel momento. In questo senso, gli Stati Uniti per me rappresentano sempre una cornice sicura, una sorta di coperta di Linus delle ambientazioni.
Quando l’ho scelto, in aeroporto (ero talmente prosciugata da partire senza un libro in borsa! Anzi no, uno l’avevo ma era solo un backup di sicurezza) mi è sembrato un segno perché, qualche settimana prima, avevo sentito parlare di questo libro da una vicina di poltrona alla manicure: lei, laureata in lettere ed esperta di letteratura contemporanea, lo aveva definito come uno dei suoi libri preferiti, il migliore dell’autore.

Così, l’ho preso. La scrittura di Auster da subito mi ha rapita, prendendomi per manto tra le insidie di una forma espressiva del tutto personale: non fluida, non esclusivamente narrante, intima. Come a costruire un legame intrinseco tra il mondo psicologico di chi legge e quello di chi vive tra le pagine del libro.

Allo stesso modo, al termine della storia, mi sono resa conto che questo suo modo di raccontare, frammentato ma in nessun modo ordinario, si riflette anche nell’organizzazione del racconto. La trama si svolge con un inizio e una fine, ma durante la lettura sembra non esistere una meta: il lettore si trova a fluttuare tra una serie di accadimenti senza apparente filo logico, nella prima parte del libro, come se mancasse un deus ex machina, ma talmente appassionanti e talmente sciolti nel loro susseguirsi, che viene da intuire il significato del titolo. Le ‘follie’ sono di chi scrive, o di chi viene condotto attraverso gli aneddoti?

Nathan, pensionato statunitense reduce da una sventata grave malattia e neo-divorziato, decide di trasferirsi a Brooklyn per terminare la sua vita: il quartiere newyorkese fronte Manhattan sembra la scelta migliore per vivere giorni tranquilli attendendo di lasciare la terra. In realtà, il ritrovamento dell’intelligentissimo nipote perso di vista qualche anno prima, lo motiva ad abbandonare la comoda routine che gli si era prospettata, diventato consulente e motivatore di questo giovane ragazzo da sempre destinato a fare grandi cose ma bloccato da un destino inverso e molti kg accumulati.

Una libreria di manoscritti antichi, un amico gallerista e una bugia troppo patinata per sembrare vero danno il via a una danza che, come dicevo, rotola di pagina in pagina conducendo tra le vie di una quotidianità urbana piuttosto semplice quanto imprevedibile. Ad aggiungersi, una serie di rivelazioni familiari che, pur essendo iper presenti nella trama, nulla hanno a che vedere con le classiche dinamiche da saga contemporanea. Conclusione: lo rileggerei da capo. Forse lo farò!

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