ElzeMìro – Mille+infinito-Una favoletta padre

Guarda che non è una storiella allegra questa, festiva ; cacciatelo bene in testa et en garde ma, ma, ma per tua fortuna è corta. Ascolta : c’erano una volta due figli e un padre, diciamo nell’ordine Bì, Cì, Dì, poi chiamali come ti pare anche Aramís Atòs Portòs. Della madre si può dire che fu una prematura della morte e che quindi si eclissò per tempo da quella convenzione. Allora : dei due giovani uno, Bì, era un uomo che si dice piuttosto fortunato, attributo che in assoluto vuol dire poco : non era ricco e povero no di certo,  aveva un ottimo lavoro, che oggi vuol dire molto, quello sì, e non rischiava di perderlo per qualche avvento o evento avverso, insomma nella quotidiana battaglia per la grana se la cavava bene. Poi era sposato, condizione questa che, anche lì, non significa nulla in assoluto. Lui tuttavia era felice o così sembrava, ed era felice lei, la sposa che a buoni conti era una donna piuttosto bella, pregio che a vivere aiuta, non sempre ma aiuta. Di fatto Bì conduceva una vita serena e persino movimentata : si poteva permettere una moltitudine di cose, persino un auto, ibrida of course, e di viaggiare per i più differenti motivi con l’ibrida e in aereo, e verso  destinazioni che interpretavano sempre il ruolo di destini. In una specie di parodia per parti contrapposte dei noti Caìno e Abele, Cì al contrario, ossia l’altro figlio, era venuto al mondo con fatica e sembrava faticare in tutto a restarci, senza mai o quasi mai riuscire ad esaudire qualcuno dei suoi piccoli desideri per esempio ; secondo quanto si può leggere in certi Essais, a piccoli desideri corrispondano piccole persone e piccoli averi : insomma in quegli Essais sta scritto che si è ciò che si ha e viceversa. Ma per parlare di bisogni invece che di desideri, metti cambiare la lavatrice guasta, Cì doveva affrontare non pochi patemi e rate ; rate, rate a cumuli erano la sua dieta diaria. Questo tu dirai succede in qualche misura a una gran parte di noi, ed è pur vero, ma per lui era peggio che per la maggior parte di noi, fidati, molto peggio, un Maelstrom che continuava a cacciarlo giù e tirarlo su senza che gli si presentasse un tocco di legno cui aggrapparsi per galleggiare almeno : affogava senza mai asfissiare. Oltre a guadagnare in conclusione poco, e per un lavoro che lo impegnava molto e non gli procurava che rarissime soddisfazioni, per Cì la questione dell’avere gli si poneva come affanno a conquistarsi l’indispensabile non l’impensabile. Il suo lavoro era condizionato dall’estro del padrone, non si dice più così ma la sostanza del vivere tuttavia gira ancora intorno a questi due sproni, padroni ed espropriati alla catena della cosiddetta indipendenza, delle imposte sul valore aggiunto senza che vi sia valore da aggiungere ad alcunché e che mette poveri contro poveri e senza una classe di riferimento ché la miseria è trasversale a una società mutata in social, dissolta in un marasma di singoli, disorientati e senza singolarità ; e ricchi, che di classe difettano, ma se ne fregano e stanno in guardia contro tutti. I sabati sera di Cì, momento, il sabato sera, in cui a tutti pare concessa una tregua da qualsisiasi loro struggle, non coincidevano col sabato del villaggio : anch’ei si fosse affrettato a finir l’opra anzi il chiarir del giorno, questo chiarir non chiariva affatto la sua condizione a breve sulla superficie della terra, condizione che somigliava piuttosto a quella dipinta da un altro poeta, se possibile più nero di Leopardi, ovvero colui che scrisse ognuno sta solo sul cuor della terra/ trafitto da un raggio di sole/ ed è subito sera ; e se ti dico trafitto, intendo dire trafitto ché Cì, al contrario del fratello, era oltretutto tra i cagionevoli di salute ovvero, e più che altro, vittima di un paio di difetti permanenti agli occhi e allo scheletro – non sto a descriverelli per non t’impressionare perché magari sei di quelli che, ah no l’iniezione no mai –. La sofferenza insomma era lo stile di Cì, e simile al baloon dei fumetti : un fumetto bianco, riempito di punti interrogativi perplessi e qualche dolente  esclamativo e che lo tratteneva a sé e lo portava a spasso in ogni istante del suo quotidiano arrabattarsi per l’almeno.

Nei fine settimana, Cì andava spesso a far visita al padre, Dì, vedovo  in un’età ormai certa anche del proprio declino, persona prudente e di qualche sostanza risparmiata nel tempo, ormai acquartierato nella sua abilità di scacchista senile, appassionato e creatore di rebus, riddler, per una rivista di enigmistica, che gli procurava anche qualche guadagnuzzo al nero, da aggiungere alla sua pensione di ex funzionario di una banca di media importanza. Bì no, Bì era un anima rara alla vista, autonomo e a sé sufficiente e all’anziano padre riservava ben poche attenzioni, benché, da provetto intellettuale quel era, avesse visto più di un film giapponese e, letto Shakespeare in inglese, sapesse le faccende di Goneril, Regan e Cordelia. Cì era intelligente sì, ma il suo intelletto, per dedicarsi a una qualsiasi forma di riflessione o di astratto componimento non avrebbe dovuto essere costretto a fabbricare in esclusiva accorgimenti di sopravvivenza. E il padre soffriva più per le visite di Cì che per le assenza di Bì. Per il vecchio era un’afflizione vedere quel figlio in condizioni che a lui sembravano il continuo malaccorto sversarsi di una boccetta d’inchiostro nero su un foglio di carta immacolata. Provvedere quando era indispensabile provvedeva certo, ma sapeva che le sue provvidenze erano altrettante frecce inflitte ogni volta all’anima piuttosto da sansebastiano del figlio. L’immagine del vecchio in pantofole, fresco di rasatura e acqua di colonia, sul figlio calava inoltre uguale a una nebbia fitta che lo accecava ; e da ciò non si ripigliava che al costringersi a saluti, a dimissioni temporanee dalla casa del padre dove andava pur tuttavia per il conforto di una o più docce caldissime quando a casa sua la caldaia, afflitta da un malfunzionamento istituzionale, si bloccava ; Cì avrebbe dovuto chiedere al padre i soldi per cambiarla ma aveva ritegno a chiederli. Dopo quelle visite a Dì, il figlio  tornava al suo appartamento al settimo piano di uno stabile in un quartiere di ex-periferia in rapido sviluppo a mezzo centro, e lontana, un altrove. Il padre Dì tornava alle sue occupazioni di scacchista enigmista e sul foglio strapazzato della vita di quel figlio continuava a non sapere come avrebbe potuto schizzare anche un solo tratto di calligrafia.

Dopo essersi asciugato da quelle docce, il figlio Cì lasciava il suo telo da bagno appeso a uno dei ganci di acciaio Ikea Brogrund infissi in una delle pareti del bagno di casa. Quando il padre passava a raccogliere la biancheria usata, lenzuola e altri asciugamano, si fermava quasi sempre ad annusare quel telo per catturarne l’aroma residuo – ah sì, non è un mistero che i figli hanno un odore primigenio che solo i genitori sanno sniffare ; almeno così si dice o pare – aroma di un Cì neonato che lui solo lui ricordava sorridente. Poi Dì aveva l’abitudine di usare lui quel telo per ancora qualche tempo, atto questo che aveva qualcosa, il tono di una magia, di una psicomagia diresti, non lo so, giudica tu che hai bisogno di giudicare, ma domandati se hai  giudizio. Ora accadde che un giorno, in un giorno preciso, ovvero quello dopo Natale, un Natale senza attributi singolari, uno, Cì dopo nemmeno due giorni passati col padre se ne andò da quella casa per tornare alla sua. Quell’ombra, quel fumetto o nuvoletta, quel baloon ti ho detto cui era agganciato, in quelle ore si era ingrossato e il padre, che a suo modo ne percepiva la presenza, vi intravedeva o temeva di intravederne iscritti geroglifici di morte. Perché, beh gli fu chiaro a fatti avvenuti. Ma sulla porta, mentre si salutavano, cercò di dimostrare al figlio un’attitudine di inesauribile affetto, come sempre peraltro, di aura protettiva, di nontiscordardemechesonlapia. Lo abbracciò e strinse a sé, atto che il figlio di rado permetteva, e il figlio se ne andò, easy in apparenza. Il padre Dì,  come d’uso trovò in bagno il telo usato da Cì e lo lasciò lì, appeso al suo gancio Brogrund però, non lo volle utilizzare lui, come sempre faceva, né lo mise a lavare, anzi come avesse creduto di indovinare sulla tela una specie di impronta del figlio, lo lasciò stare. L’analogia con l’assai nota sindone sta tutta nel fumo con cui uno si inebria le meningi per rintronarle ; qui te l’ho offerta come si dice su un piatto d’argento per il puro gusto di darti il gusto di fumigarti con un’idiozia. In una notte nera di pochi giorni dopo, quella dell’anno per la precisione, Bì il figlio fortunato volava nei cieli con destinazione Bilbao dove avrebbe trascorso qualche giorno di vacanza con prenotata visita al Guggenheim in compagnia di amici suoi e della sua moglie spagnola. E volava volava nel gelo/ del primo gennaio/ a Bilbao atterrò. E con plausibile approssimazione nelle stesso momento, mentre Bì volava su in cielo, Cì volava giù dal cielo  dal suo settimo piano. Volò e atterrò, sbozzandolo, sul tettuccio di un’auto parcheggiata lì sotto, una brand new Jeep Renegade 4XE bianca, pare accertato.

Il lutto colpì i due superstiti, Bì che – senti se ha senso dire al volo – tornò da Bilbao per confortare il padre, impietrito in un masso di dolore da cui Bì capì non sarebbe mai più uscito. Per anni il telo da bagno di Cì rimase appeso al suo gancio Brogrund Ikea, certo che si impolverò ma il padre non volle mai lavarlo, niente e anzi lasciò per scritto – parlare hai capito che dal volo definitivo di Cì mai più disse una parola – lasciò scritto che quando fosse morto lo si dovesse avvolgere in quel telo, come in un sudario ; e questo fu fatto, gli esperti delle pompe funebri lo imbacuccarono ben bene, a coprirgli persino la testa e il viso e così avvolto in quel telo il padre volò via per il camino del forno crematorio. Il figlio Bì ritirò le ceneri e le sparse nel primo cielo a portata di mano.

Pasquale D'Ascola

P. E. G. D’Ascola Ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: Le rovine di Violetta, Idillio d’amore tra pastori, riscrittura quet’ultima della Beggar’s opera di John Gay, Auto sacramental e Il Circo delle fanciulle. Suoi due volumi di racconti, Bambino Arturo e I 25 racconti della signorina Conti, e i romanzi Cecchelin e Cyrano e Assedio ed Esilio, editato anche in spagnolo da Orizzonte atlantico. Sue anche due recenti sillogi liriche Funerali atipici e Ostensioni. Da molti anni scrive nella sezione L’ElzeMìro-Spazi di questa rivista  sezione nella quale da ultimo è apparsa la raccolta Dopomezzanotte ed è in corso di comparizione oggi, Mille+Infinito

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