A tu per tu con… Pino Cuttaia

cuttaiaOriginario di Licata, Pino Cuttaia si trasferisce con la famiglia a Torino, dove studia, lavora e coltiva la passione innata per la cucina nei fine settimana, gli unici momenti liberi rimasti. Fa una dura, ma proficua gavetta al “Sorriso” di Soriso e al “Patio” a Pollone dove «impara la precisione nel lavoro», un’importazione che unita all’amore per gli ingredienti isolani e al suo talento, gli porterà grande fortuna di lì a breve. La sua avventura inizia ufficialmente nel 2000 quando, insieme alla moglie, apre il ristorante “La Madia” a Licata (Agrigento). Da lì agli anni successivi è una pioggia di riconoscimenti prestigiosi, tra cui spiccano due stelle Michelin. Nel 2014 il suo Uovo di Seppia è il piatto simbolo della decima edizione di Identità Golose.Nel suo primo libro Per le scale di Sicilia, edito da Giunti, racconta la sua cucina e la sua terra tra ricette, racconti e paesaggi.

Nell’incipit del suo libro si legge:”Il mio ingrediente segreto è la memoria”. Quando la memoria diventa un ingrediente fondamentale in un piatto? È possibile che esista una cucina senza memoria?

La cucina senza memoria sicuramente esiste, ma la reputo presuntuosa perchè penso sarebbe legata solo ad un cuoco o un artista, allontanandosi dal pubblico. Poiché è nuova, e quindi non assomiglia e non è riconducibile ad una memoria come ingrediente, diventa personale del cuoco e, se buona, sarà un domani una sua memoria, altrimenti resterà fine a se stessa. Ritengo esista sicuramente un ingrediente senza memoria però è fatto da un cuoco che comunque è più artista che artigiano: l’artista crea cose nuove l’artigiano riproduce.

Lei si definisce un “artigiano” e non un “artista” della cucina. In che parte questa definizione affonda le radici nella tradizione della sua terra, la Sicilia?

Sicuramente la definzione della mia cucina come ‘artigiana’ e mia come ‘artigiano’ ha origine dalla mia terra natia, perchè è un concetto legato ai mestieri, alla manualità che io sostengo. Il nostro processo creativo è legato al gesto, all’artigianalità che va ereditatà e non abbandonata come con moltissimi altri mestieri.

Lei ha coltivato per anni la passione per la cucina, mettendola in pratica nonostante studio e lavoro fino a farla diventare parte fondante della sua vita. Quando ha capito che cucinare non poteva più essere un hobby, ma doveva diventare il suo lavoro?image

Quando ho deciso che avevo voglia di comunicare. Credo che tutti oggi vogliano comunicare qualcosa e io personalmente l’ho capito attraverso il cibo: per me non era più un far da mangiare, ma un raccontarsi e, se legato alle mie memorie, poteva essere un risveglio per le persone, tante ratatouille, chiamiamole così, come nel cartone. Ho pensato di farlo seriamente quando ho capito che il cibo era un grande mezzo di comunicazione e che per me era diventato fondamentale trasmettere il mio messaggio e la mia memoria.

Una delle sue ricette più famose è l’uovo di seppia. Come nasce questo piatto? Qual è stata la reazione dei suoi clienti e dei critici la prima volta che è stato loro proposto?

Sicuramente è un piatto che ha sconvolto anche me, nel senso che quando crei qualcosa del genere ritorni bambino, è come se avessi fatto una scoperta e la volessi dire alla mamma; questo uovo di seppia che rappresenta allora la perfezione, un simbolo che l’uovo ha da sempre per la sua forma rotonda e liscia. A loro volta i clienti rimangono stupidi dalla sua forma e dal gusto ed è davvero come aver nuovamente fatto una scoperta.

La sua cucina è una “cucina in bianco e nero”, un elogio all’umiltà, alla concretezza. Cosa l’ha spinta ad adottare la semplicità come stile personale?

È una scelta che deriva dal mio carattere, non sono un cuoco esuberante e mi piace essere di basso profilo, preferisco di più stare dietro alle quinte che davanti ad una platea. Il ‘bianco e nero’ sono due colori a me cari, legati alla memoria al mio passato, ma soprattutto legato a dei gesti della mia cucina e si presta bene a descrivere come lavoro e come penso.

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