Bookcity Milano 2013 ci ha dato la possibilità di porre qualche domanda a Paolo Maria Noseda, interprete di “Che tempo che fa” e autore del libro La voce degli altri, edito da Sperling & Kupfer.
Mi piace molto la definizione che dà di interprete “colui che mette in comunicazione due mondi”. È davvero così? Quando ha capito che questa era la sua vocazione?
L’ho capito presto. L’aver capito da giovane che cosa mi sarebbe piaciuto fare è stata una delle mie fortune perché credo che nella vita bisogna perdere poco tempo, in quanto è un dono preziosissimo nella nostra esistenza. Mi sono dedicato all’interpretazione perché, prima di tutto, provengo da una famiglia abbastanza “mista”, per cui le lingue non sono mai state un problema né di frequentazione e né di familiarità. Inoltre mi sembrava uno dei lavori che mi permettesse di scoprire il mondo, che é una cosa che mi interessa. Io ero molto curioso e lo sono tuttora, quindi questo è un lavoro che mi avrebbe permesso di scoprire il mondo e di essere utile. Allora, a 17 anni, ho scelto questa strada. Devo ammettere che è stata una scelta molta combattuta tra l’occuparmi delle lingue e l’occuparmi di medicina, perché a me sono sempre piaciute le scienze mediche e biologiche. Ma alla fine sono finito anche a tradurre convegni di medicina. In seguito, mi sono detto che era decisamente meglio curare le persone con le parole e non con le medicine, quindi ho scelto la comunicazione.
Lei nel libro parla anche di certi scetticismi da parte dei suoi familiari nei confronti di questa sua scelta. Cosa non li convinceva veramente?
Io vengo da una famiglia austro-svizzera da parte di madre, austro-svizzera ma cattolica, e da parte di babbo da una famiglia che ha origini spagnole che, andata in Ungheria, è stata ribattuta in Svizzera, dove poi si sono incontrati mio padre e mia madre. Non c’era la tradizione di questo lavoro in casa mia perché le lingue si parlavano. Infatti mio padre mi disse: “Ma ci campi tu con questo lavoro? È un lavoro questa roba qua?”. Io ho sempre viaggiato da piccolino per il lavoro di mio padre, che andava in giro facendo il salva-azienda cioè, quando un’azienda andava male arrivava lui, stava lì due o tre anni, si metteva a posto e poi si andava via. E proprio anche perché noi abbiamo avuto un plurilinguismo in casa, le lingue non erano viste come un grande tesoro, questo faceva parte della vita di tutti i giorni, perciò loro sono stati un po’ scettici. E difatti devo dire che questo è servito perché se le cose ti vanno troppo bene nella vita non tiri mai fuori le unghie. Allora quando io ho avuto le critiche dai miei genitori o dei dubbi c’ho dato dentro per far vedere che le cose avrebbero funzionato.
C’è un personaggio a cui non ha mai donato la sua voce e a cui vorrebbe donarla?
Ovviamente tantissimi. Ad esempio Mandela: a lui non ho mai donato la mia voce e mi piacerebbe molto. Ma ce ne sono davvero tanti. Quando ho scelto di fare questo lavoro ho osservato come non fosse possibile vedere tutto il mondo. Anche con il mio lavoro faccio il possibile per cercare di lavorare con tutti, ma so che non ci
riuscirò. Tanti sono i personaggi a cui non ho mai prestato la mia voce, Mandela – come già detto – per citarne solo uno, ma anche tanti scrittori. Magari la cosa strana è che con tante persone sono diventato amico, c’è una frequentazione, ma poi non ci siamo mai trovati al lavoro e non ho mai tradotto loro in situazioni pubbliche.
Ci sono trucchi e stratagemmi che ha adottato che la rendono così bravo nel suo lavoro? E che consigli può dare ai giovani che desiderano intraprendere il suo percorso?
Trucchi pochi perché il mio è un lavoro molto di verità: non siamo prestigiatori, ma piuttosto dei funamboli, cioè non facciamo trucchi ma dobbiamo mettere le abilità. Quindi devi essere estremamente severo con te stesso e anche molto curioso. La curiosità è un po’ una chiave di volta di tutto. Stratagemmi no, piuttosto tanta tecnica. Io, per esempio, ho studiato recitazione perché la voce è il nostro strumento e quando tu la presti agli altri devi saperla adattare. Ho lavorato con attori famosi. Sono molto amico di Lella Costa, ad esempio, e ritengo sia una delle mie maestre dal punto di vista della dizione, della presenza sul palcoscenico e del carisma. Ma anche Lopez, del Trio Marchesini, che, nonostante sia conosciuto come comico, è un grande attore. Bisogna studiare queste cose. Io ho studiato dizione, musica e anche danza perché quando si è davanti ad un pubblico sul palcoscenico bisogna essere conscio dell’effetto che la presenza ha sugli altri. Non è semplicemente una storia di lingue, ma è necessaria molta disciplina e molto studio. Banalmente, ieri ero in televisione con Robbie Williams e io studio lui prima di interpretarlo perché è un elemento di lavoro, non divertimento. Quindi devo sapere la sua discografia, devo sapere la sua vita, devo avergli parlato. È molto importante stabilire un rapporto e ci deve essere un’analogia. Per esempio ho qualcosa in comune con Robbie Williams: ho frequentato una scuola in Inghilterra, a Manchester, e lui è viene da un paese vicino a Manchester. Quando l’ha saputo praticamente siamo diventati fratelli. Dovete pensare che questi personaggi sono sotto una pressione tremenda. I rapporti che hanno sono raramente sinceri e le persone che incontrano sono interessate a loro per dei motivi pratici, mai per un rapporto emotivo di sincerità e di scambio. È vero anche che questi rapporti, sebbene sinceri, durano poco perché in questo mondo le frequentazioni sono molto limitate nel tempo. Per dire, io sono molto amico di Patty Smyth, che conosco da 30 anni. E quando lavoriamo insieme e ci ritroviamo non ci diciamo mai “ciao, alla prossima volta”, ci promettiamo che ci rivedremo e quando ci rivediamo è come se ci fossimo visti il giorno prima. Si deve riuscire a creare questo tipo di legame. Il mio consiglio ai giovani è studiare tanto ed essere curiosi, mai essere approssimativi nelle cose. L’approssimazione non serve a nulla in un momento come questo dove ce n’è fin troppa e in un mondo in cui è difficile emergere. Il vero strumento per emergere è il talento. Esso va coltivato. Tutti abbiamo dei talenti, ma molto spesso ci si lascia fuorviare da altre considerazioni. Io adesso insegno in università e il mio invito ai giovani è “fare quello che amano”. Lasciamo perdere le considerazioni economiche. È solo facendo quello che amiamo che si riesce a dare e ricevere, secondo me. Il mio consiglio ai giovani è sincerità con se stessi, perché è inutile farsi dire le cose dagli altri, le cose le sappiamo benissimo dentro noi stessi. Se ascoltiamo questa vocina è meglio che metterla da parte.
Quanto tempo dedica allo studio del personaggio?
Tanto, a volte anche due o tre giorni o molti più giorni. Non ho mai fatto un calcolo. Ogni situazione cambia, per quei personaggi che conosco molto bene ci impiego anche solo una giornata. Ma se è uno scrittore, io leggo i suoi libri e ci vuole un mese. Ho appena tradotto Eduardo Galeano, che è uno scrittore strepitoso, peruviano, al quale secondo me dovrebbero dare il nobel per la letteratura. Io avevo letto due suoi libri e ho dovuto leggermene dodici, perché non valuto una persona senza conoscerla. Anche il “non detto” e le cose che diamo per scontate sono importanti. Per capire il “non detto” si deve conoscere quello che la persona ha fatto, il suo ambiente, dove vive, quello che fa, come si comporta tutti i giorni e, a volte, anche i pettegolezzi sono necessari. Solo così posso farmi un quadro di chi sia la persona che ho di fronte. Il mio lavoro non è semplicemente tradurre, ma entrare nel cervello e nel cuore delle persone e cercare di prendere un pezzettino di questo cuore e di questo cervello e farlo capire agli altri. È l’unico modo perché una traduzione rimanga. Allora serve uno studio molto approfondito. Il silenzio, per esempio, è importantissimo. Raramente si dà importanza alle pause o al cambiare di tono.
Questa versatilità si impara o pensa che sia un talento innato?
Si può imparare. Ci sono delle discipline. Tra queste, una di cui io vorrei si sapesse di più: la foniatria, che prevede la conoscenza degli organi interni che presiedono la voce e la respirazione. Se le persone la conoscessero si potrebbe tranquillamente lavorare sulla propria voce. Quindi già questa è una scoperta. Le persone, quando si emozionano, tendono ad alzare il tono di voce e a diventare striduli. Essere stridulo non è mai una cosa accattivante, in quanto si deve parlare per lavoro, per convincere, per mettere il tuo pubblico nella condizione di comprendere e di ascoltarti. Allora che cosa devi fare? Devi adottare delle tecniche e delle strategie. Alcune di queste si imparano, altre si sviluppano. Non sono uno che crede che si nasca con il bernoccolo della matematica o che non si riesca a fare della pittura. Nella vita ognuno sviluppa delle proprie preferenze, ma io sono assolutamente certo che nasciamo con delle potenzialità che sono oggettivamente simili per tutti. Perché non si emerge? Semplicemente perché non si è se stessi, si viene fuorviati da tremila cose e si deve costantemente far fatica per riportare se stesso sul baricentro giusto. L’equilibrio secondo me è molto importante: bisogna saper tenere i piedi per terra. Cioè, non è che perché sono in giro con Naomi Campbell allora mi metto a pensare che faccio il top model. Con la comunicazione cerco di fare questo. Un altro aspetto molto importante è non prevaricare: ognuno di noi ha una personalità, un proprio carattere, che quando si lavora devono diventare assolutamente neutri.
Prestando questa parte di sé agli altri non rischia di perdere un po’ della sua personalità?
Certo. È il rischio a cui un grande numero di persone sono sottoposte. C’è il rischio ad esempio che l’autista dell’autobus perda la sua serenità perché è sottoposto a stress da mattina alla sera. I rischi fanno parte della vita. Bisogna essere consapevoli. Quando si acquisisce la consapevolezza del rischio che si sta correndo allora non lo perdi. Saper stare al proprio posto è molto importante. Bisogna essere molto severi con se stessi per evitare di diventare patetici, come tanti di quei personaggi. Ho visto questo delirio in tantissime persone. Quando raggiungi una certa popolarità, una fama, alla fine ti viene di pensare che non passerà mai. Bisogna sempre essere consapevoli, io lo sono sempre stato. La gente mi chiede perché non mi faccio intervistare da Fazio, il mio lavoro non è quello di essere intervistato: se io avessi voluto fare l’attore o il personaggio pubblico lo avrei già fatto. Ma il mio lavoro è stare dietro le quinte e prestare la mia voce nel miglior modo possibile per le persone se mi mettono nelle condizioni di lavorare. Si pensa spesso che nel mio lavoro basti schiacciare un pulsante e tradurre. Ma non è così, non è affatto così. Io ho bisogno della collaborazione di tante persone, prima di tutti dell’ospite. Riesco ad essere molto neutro sui personaggi che devo interpretare perché loro sono loro, non sono io. Di persone sgradevoli ne è pieno il mondo. Ma sono loro, loro sono sgradevoli, non io, o almeno io penso di non esserlo. Poi, se devo tradurre la loro sgradevolezza, la traduco, è il mio lavoro. Inoltre io non ho mai litigato con nessuno, per me è un punto non litigare con le persone perché non trovo la necessità. Cerco sempre piuttosto l’empatia. La comunicazione è importante, ci si deve capire. Le mie lingue di lavoro sono francese, inglese, tedesco, italiano e spagnolo e ho studiato anche un po’di cinese e arabo, ma non le uso nell’ambito lavorativo.