A tu per tu con… Luca Mastrantonio

Gli intellettuali nel nostro paese sono una categoria tutta particolare, che si può persino catalogare in “tipi” ben precisi con tanto di comportamenti facilmente  riconoscibili e spesso da censurare. Almeno così la pensa Luca Mastrantonio, che  dal 2011 è alla redazione culturale del “Corriere della Sera”  e gestisce un blog (criticalmastra.corriere.it) tramite il quale non manca di bacchettare il mondo dell’impegno intellettuale italiano.

Il suo libro, “Intellettuali del piffero” edito da Marsilio, ne ricostruisce in breve la storia e ne traccia una sorta di mappa, oltre a darne dei giudizi non certo teneri.

Quelli che lei definisce intellettuali del piffero, cercatori di consenso e di un posto al sole, sono presenti in tutti gli schieramenti, da destra a sinistra passando per il centro. La pluralità dei pifferai però- riprendendo la sua definizione- può essere essa stessa una garanzia. È d’accordo?

Condizioni storiche e culturali hanno fatto sì che gli intellettuali del piffero siano più a sinistra che a destra o al centro. Per quello che queste categorie possono significare oggi, ad esempio nell’aspetto rivendicativo, c’è chi si considera di sinistra, e di pubblico, c’è chi viene letto anche da un pubblico non di destra benché sia di destra. La pluralità di finzioni, bugie, furbizie e scemenze non garantisce maggiori anticorpi, anzi: se così fan tutti, l’assoluzione è più facile. L’unica garanzia viene dagli scacciapifferi, cioè quelli che trovano contraddizioni, sottolineano salti logici, cercano una coerenza o un fondamento, una spiegazione al cambiamento di opinione o alle contraddizioni. Quelli che rompono l’incantesimo del pifferaio magico. 

Cosa dovrebbe fare un nuovo intellettuale per uscire dal coro ed essere credibile? È possibile essere totalmente liberi di esprimere le proprie opinioni? 

Stare zitto quando non ha nulla di autentico o argomentabile da dire e sostenere. Albert Camus stava zitto quando non aveva un’opinione chiara, certa, onesta, serena con se stesso (sull’Algeria per esempio). Prendersi la responsabilità di quello che si dice e non rivendicarne l’aspetto provocatorio per assolversi. L’opinione ha un contenuto, è un messaggio, ma troppe volte è usato come mezzo, strumento per ritagliarsi uno spazio nella società dello spettacolo. Come quando Gianni Vattimo dice che non crede ai Protocolli dei Savi di Sion, un testo antisemita riconosciuto come falso, ma lo rivaluta in funzione anti-israeliana.

Una categoria di intellettuali di nuova generazione che lei descrive è quella legata al cibo e alla valorizzazione del gusto italiano. Non solo i cuochi showmen quindi, ma anche gli intellettuali gourmet. Ci era rimasto solo il cibo per consolarci, ora ci vogliono togliere anche quello?

Sono gli intellettuali organolettici, cioè organici allo storytelling alimentare. Una nuova grande narrazione centrale nel sistema italiano primario, secondario e terziario. Che mette assieme Coldiretti (che ha radici democristiane), Slow food (evoluzione a sinistra di Arcigola) e destra sociale. Il cibo non ce lo tolgono, l’Italia ha guadagnato livello nutrizionali altissimi rispetto agli anni pre-industriali. C’è molta retorica attorno al mondo agricolo e ai prodotti tipici italiani. C’è molta sostanza, certo, e di quello si occupano coltivatori e industriali, ma troppa retorica.

Uno degli aspetti più interessanti del libro a mio avviso è la ricostruzione di una “storia degli intellettuali dal dopoguerra ad oggi”. Secondo lei perchè ce n’era bisogno? intellettuali del piffero

La storia degli intellettuali del dopoguerra è stata fatta, meglio di me, da tanti storici e critici, da Nello Ajello a Mirella Serri e Pierluigi Battista. Con tutti i miei limiti ho provato a fare qualcosa di simile alla cronaca-critica di uno spettacolo che abbiamo avuto negli ultimi 20 anni, ovvero il ruolo degli intellettuali nella società dell’avanspettacolo politico. Qual è questo ruolo? Difenderlo, o ricavarlo, ottenendo spazi e riserve, posti letto in un ospizio (l’intellighenzia italiana è un ospizio per tutte le età, dalle vecchie trombette ai giovani tromboni). E poi è un esorcismo, di intellettuali che ho letto, amato, odiato, comunque seguito. Entrambe queste due forme, la cronaca-critica e l’esorcismo, hanno un modello cui mi sono, umilmente, ispirato, Edmondo Berselli.

Lei fa tanti nomi di intellettuali compromessi a vario titolo col potere. Chi è stato più deludente dal punto di vista della coerenza?

Umberto Eco. Non è neanche un problema di coerenza. La coerenza non va sopravvalutata. Ma di lui, in politica, si fa fatica a distinguere tra la parodia e la non parodia. Forse però la delusione più grande, in questi ultimi anni, l’ha data Barbara Spinelli. Di una labilità politica intellettuale incredibile. E anche Stefano Rodotà sull’altalena di Beppe Grillo… vabbè, mi fermo.

I riferimenti letterari sono i più inquietanti: lo storytelling è l’ideologia dominante. Che ne sarà della letteratura come pura forma artistica?

Per me la letteratura come pura forma artistica è la poesia. E in Italia sta male da tempo. E non è colpa di nessuna ideologia, ma dalla pochezza che un Paese rovinato dalla sete di piccoli poteri.

 Qual è il ruolo della lettura e dei lettori in questa situazione poco idilliaca?

Discorso complesso. La domanda, oggi, è: chi legge, che tipo di lettore è?

Milanese di nascita, ha vissuto nel Varesotto per poi trasferirsi a Domodossola. Insegnante di lettura e scrittura non smette mai di studiare i classici, ma ama farsi sorprendere da libri e autori sempre nuovi.

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