Davide Rondoni è un poeta nato a Forlì, conosciuto anche in ambito internazionale come fondatore e direttore del Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna e della rivista «clanDestino».
È sempre circondato da giovani poeti che incoraggia con la sua passione e l’impegno che lo portano a spaziare nella poesia e in altri campi del sapere. È un abile traduttore, saggista e romanziere. Inoltre è il curatore di programmi di poesia e scritti di antologia per la televisione italiana. Le sue intuizioni, ardite e controcorrente, incidono in modo deciso nel cambiamento di prospettiva di una cultura come quella italiana, troppe volte accademica e distaccata dalla realtà.
Alla rassegna A Tutto Volume di Ragusa, ha presentato l’ultimo libro per ragazzi “Best della grande palude”, San Paolo edizioni.
La storia narra le vicende di un bambino di nome Best e di suo padre che sono divisi da quando la madre del ragazzo è morta. È lo zio a prendersi cura di lui, anche se padre e figlio, seppure lontani, non hanno mai smesso di pensarsi. Il padre è il guardiano di un faro e non può allontanarsi dal suo compito di tenere accesa la luce che protegge dai pericoli, oltre a questo però c’è un altro motivo che impedisce il loro ricongiungimento.
Rondoni davanti al pubblico di Libri in festa – lettori di ogni età – , narra una vicenda ricca di valori universali, come accade in tutti i grandi romanzi di formazione. Il protagonista è il mare al quale bisogna guardare perché è il fondo della vita da cui viene il bello e il brutto e per questo – come dice il poeta – ci fa vedere l’esistenza nel modo più adeguato: “il mare che ci attrae è la metafora del viaggio. Le sue onde somigliano alle parole e come queste sono piccole cose che brillano per un attimo, ma dietro hanno il mare, il grande mistero della vita”.
Il padre del ragazzo, è una figura che sta sull’orizzonte del quale ne cambia il senso e può esserci sempre, anche quando non c’è più: “è un vincitore segnato dalla vita e comei vincitori a volte zoppicanoperché dalla lotta della vita non si esce mai indenni!”.
I temi affrontati dall’autore durante l’incontro con il pubblico sono stati diversi ma il filo conduttore è stato unico: l’emergenza di tipo educativo.
Che tipo di posizione verso la vita stiamo comunicando? Il nostro è un Paese sterile che non ha voglia di educare i giovani.
Oggi c’è un problema molto grave, siamo seduti sui nostri ragazzini come su una bomba! La società ha consegnato i ragazzi alla scuola e ai professori: in fondo tutto è cambiato ma il sistema scolastico è sempre lo stesso. I ragazzi passano molto tempo a scuola con i professori che fanno del loro meglio ma sono caricati di troppa responsabilità. La scuola non è il luogo preposto alla formazione. I giovani non hanno bisogno di professori ma di adulti che li accompagnino nel loro percorso senza mettere voti: ci vogliono dei luoghi di rapporto tra adulti e giovani; il mio piccolo contributo è in questo senso, voler spingere alla nascita di luoghi e spazi dove i giovani stiano con gli adulti e le storie siano un modo per stare insieme.
A Gli Amanti dei Libri, Rondoni ha parlato non solo del romanzo ma anche di altro, e le sue risposte non sono state mai scontate.
Questo racconto è la prosecuzione del primo romanzo, “Se tu fossi qui”, premio Andersen 2015?
Idealmente è il seguito del primo romanzo ma è un libro a sé stante, pieno di pericoli e di poesia. Nella vita di Best, che vuol dire il migliore, così come lo è ogni figlio per suo padre, c’è tanta malvagità.
Il padre è zoppo e non si può muovere dal faro dove vive con il cane Bombo, un Golden Retriever. Durante la permanenza con il padre al faro, il giovane vive delle esperienze piene di pericoli insieme ad una ragazzina di nome Rosa.
Questo libro è la mia risposta al “Piccolo Principe” che è un libro mesto! Saint-Exupéry si era innamorato di una donna che non vedeva mai e diceva che l’essenziale è invisibile agli occhi. La mia storia invece dà molto credito al visibile, io dico che l’essenziale è anche visibile. Esposti sul mare i protagonisti vivono la loro avventura abbastanza rischiosa. Il mare non è mai fermo, c’è qualcosa di originario nel suo moto. Le onde generate dal movimento assomigliano alla nostra costituzione ovvero al dna nella sua forma elicoidale.
Questa è una storia incentrata sulla figura del padre. Nel romanzo si ha l’impressione che ci siano molte figure maschili, come mai?
Sicuramente la figura del padre ha la sua importanza, ma ci sono anche figure femminili come Rosa e la madre di lei. La madre di Best, che è morta nel metterlo al mondo, è una presenza costante nella loro vita e lo si capisce bene quando il padre e il figlio sono distesi su un prato, sulla scogliera davanti al mare, e guardano le nuvole e lì vedono qualche cosa, vedono le nuvole!
Negli ultimi tempi si parla molto di stereotipi e discriminazioni nella letteratura di genere, cosa ne pensa?
La letteratura di genere è l’ultimo cascame di materialismo sposato con il più bieco individualismo. Si commette un errore quando si vuole insegnare una lettura del mondo ragionando per generi. Non credo nella letteratura di genere che si fonda sulla filosofia di genere; questa costituisce l’identità dei soggetti a seconda di quello che fanno o che pensano sia un’azione. Io dico che la sostanza è letteratura e non l’aggettivo: la letteratura dovrebbe essere quell’ambito nel quale l’aggettivo serve solo ad illuminare la sostanza.
La letteratura che scaturisce dalla filosofia di genere inverte i termini e dà importanza all’aggettivo: tu sei omosessuale dunque la tua identità è quella di omosessuale. Penso invece che uno sia una persona in primo luogo, poi che faccia atti omosessuali è un’altra cosa. Quello di aver scambiato l’atto con la sostanza è un fatto molto grave, perché qualsiasi atto ti identifica, per cui uno è ciò che fa. La cultura greca divide la persona dall’atto, la filosofia di genere tende ad assottigliare questa separazione, per cui tutto è diventato identità. In questo modo si sclerotizza tutto e non si può discutere più di niente. Il fatto che uno è ciò che fa, genera ansia e uccide le persone. Oggi c’è un abuso di ansiolitici da parte di coloro che si identificano con quello che fanno.
Continuando sullo stesso piano, il fenomeno del femmincidio esiste o non esiste oppure è solo una questione di termini?
Per me quando si ammazza una donna si parla di omicidio, che sia in Italia, in Africa o in Medio Oriente. Uno non ammazza una donna in quanto donna ma l’ammazza perché è arrabbiato con lei o per tanti motivi. L’elevata percentuale di omicidi di donne si spiega semplicemente con il fatto che l’uomo ha più prestanza fisica ed è molto spesso in una situazione di maggior potere – non dico che sia giusto o sbagliato ma è così! – . Questa disparità genera un sopruso dovuto ad un retaggio culturale che vede la donna come una proprietà dell’uomo. Non si capisce il mondo ragionando in generi, sicuramente è importante analizzare il fenomeno, ma non è questa la chiave di lettura principale.
Allora bisogna insegnare ai bambini che siamo esseri umani senza distinzione di genere?
Sì, ma è necessario riempire di contenuti la parola essere umano. Nel “Canto notturno” del 1830, Leopardi diceva: “io che sono?”. La contemporaneità fa fatica a rispondere a questa domanda. Dunque io che sono, gli atti che faccio, le preferenze che ho, la cultura che ho e i gesti che faccio?
Il poeta di Recanati a vent’anni lo aveva capito: l’uomo è il legame con l’infinitoe quando non è così è il legame con il potere, di qualsiasi forma o convenienza esso sia. La vera sfida di oggi è quella di affermare l’identità della persona legata a qualcosa di infinito, non a un genere e neanche a un atto, giusto o sbagliato che esso sia.
Oggi c’è un senso di giustizialismo assurdo! Uno non è un assassino come identità ma è una persona che ha commesso un omicidio. C’è un problema di identità assoluta, per cui se un giovane fa qualcosa di sbagliato e la notizia si trasmette in modo virale su Facebook può succedere, come sta capitando, che questo si senta umiliato e si ammazzi. Non bisogna fare un discorso di genere come qualificazione del diritto, oggi quelle deboli sono le donne, domani sarà qualcun altro.
Il discorso sul legame con l’infinito si ricollega all’iniziativa Infinito200. Di che cosa si tratta?
È una occasione per festeggiare in anticipo il bicentenario della nascita della grande poesia, “L’infinito” di Giacomo Leopardi. L’iniziativa prevede una serie di eventi in tutta Italia, e come per un bambino si parte mesi prima. “Infinito200” l’ho ideato insieme al Centro di Poesia contemporanea, alla Fondazione Claudi e al Centro Studi Marche.
L’infinito è una idea che appartiene a tutti, ognuno ci guardi dentro e faccia quello che vuole ma a questo bisogna dare un volto. Il rischio è che questo volto per qualcuno diventi il “vitello d’oro”, l’idolatria sotto qualsiasi forma.
Oppure uno può scegliere di aderire all’infinito stesso che si può chiamare in tanti modi. Il problema è la dimensione che dai a questo evento. La Bibbia non distingue mai tra atei e credenti, ma tra credenti e idolatri, non ci sono gli atei, perché un infinito uno se lo crea: può essere se stesso, la sua faccia, il potere. Si tratta di decidere a quale infinito appartieni, i soldi, il denaro, il successo, il potere?
“L’infinito” è una poesia meravigliosa. Sto scrivendo un libro su questo patrimonio comune. L’Italia l’ha fatta la cultura, il bene comune di queste cose è un modo per affermare un’identità culturale italiana che non è di carattere politico-istituzionale o amministrativo, ma è un’identità di tipo culturale, perché Michelangelo era italiano e l’Italia non c’era ancora, lo stesso vale per Dante e Leopardi. Al di là di questo aspetto, c’è il fatto che un ragazzo come Leopardi a vent’anni capisce che l’infinito è un problema della vita.
Attraverso l’epistolario di Leopardi conosciamo il pensiero più intimo del poeta, il desiderio di affrancarsi dal padre e da una realtà di provincia. “L’infinito” nasce poco tempo dopo il primo tentativo di fuga fallito. Quali sono i rapporti con il padre e i letterati del suo tempo?
Leopardi voleva andare via da Recanati per fare una carriera incerta da un’altra parte. Voleva fare fortuna nelle grandi accademie del sapere come Milano e Firenze, per essere riconosciuto egli stesso come accademico in queste grandi città. Il padre lo fu di Recanati, ma quest’ultimo non si fidava dei suoi interlocutori ed è per questo che tentò di proteggerlo. La lettura che si è voluta dare di un Leopardi in contrapposizione al padre Monaldo non è quella giusta; lui non è stato mai contro il padre per il quale, peraltro, nutriva profondo affetto. Leopardi era uno controcorrente, aveva un’aspirazione culturale diversa. In primo luogo non era un progressista, mentre la cultura italiana era tendenzialmente liberale e progressista. Egli si sente un uomo del passato, un classico che non si fida delle magnifiche sorti progressive. Sostanzialmente è uno che si oppone a quello che era l’ottimismo imperante delle classi culturali del momento.