Andrés Neuman, talentuoso scrittore di Buenos Aires residente in Spagna, enfant prodige dell’ultimo panorama letterario (a ventidue anni finalista del premio Herralde con Bariloche, a ventisei nuovamente finalista Herralde, a trentadue premio Alfaguara e premio della Critica per Il viaggiatore del secolo) con l’ultimo romanzo Parlare da soli, edizione Ponte Alle Grazie, ci ha regalato una storia intensa e commovente. Gli abbiamo fatto qualche domanda.
Se con Il viaggiatore del secolo ci siamo trovati immersi in un “romanzo totale”, difficile da catalogare perché ambiziosa commistione di romanzo storico, di formazione e d’amore, in Parlare da soli riconosciamo sicuramente con precisione l’atmosfera del “romanzo intimo”, circoscritto ad una profonda indagine psicologica di personaggi, un triangolo familiare, che si trovano ad affrontare una malattia che non dà scampo. Il tema non è sicuramente facile. Da dove nasce questa scelta?
Credo che i temi non si scelgano, piuttosto ci cadono improvvisamente sulla testa come una tegola o una cattiva notizia. A partire da qui possiamo dimenticare il colpo ricevuto oppure tentare di comprenderlo e recuperare la nostra testa. Sfortunatamente prima o poi tutti ci troviamo ad affrontare la perdita di qualcuno che amiamo. Mi interessava raccontare come si trasforma chi rimane in vita, come l’esperienza di accudire un malato amato cambia la nostra idea del tempo, il corpo e la memoria. In più mi interessava pensare al sesso come risposta davanti alla morte. Erano temi difficili? Non lo so, semplicemente sono temi che particolarmente mi importavano e quando qualcosa ti importa molto l’esperienza della scrittura è più intensa. In realtà non abbiamo bisogno di ciò che è facile, perché già sappiamo com’è. Tutti i romanzi parlano d’amore, ma ci sono amori più oscuri di altri.
La precisione e l’estrema umanità con le quali ha affrontato l’argomento rendono difficile pensare che non sia parte di una sua esperienza, è così ?
Come a tanta altra gente, anche a me è toccato accudire prima mio padre e poi mia madre. Entrambi erano ancora molto giovani. Mio padre ce l’ha fatta, mia madre no. Questo mi ha fatto pensare a quanto sia urgente parlare con le persone che amiamo per non rimanere poi a parlare da soli. Quando morì mia madre mi colpì appurare come la conversazione con lei non si interrompeva del tutto, bensì cambiava di livello. Questa conversazione continuò, addirittura si intensificò dentro di me, proprio come se la memoria fosse una piccola resurrezione giornaliera. Il miglior testimone di queste risurrezioni terrene è la parola. Mi commosse sapere che la sposa di Čechov, l’attrice Olga Knipper, scrisse al suo defunto sposo varie lettere. Non mi sembrò affatto pazzia bensì un atto di riscatto poetico. Elena nel romanzo fa qualcosa di simile.
Elena, forse il monologo più intenso e forte del romanzo, cerca nella lettura un via di salvezza al dolore: “forse, senza rendercene conto, andiamo in cerca di libri che abbiamo bisogno di leggere”. I libri, letti o scritti, possono scacciare i nostri demoni?
Certo che no, non servono ad allontanare i nostri demoni, bensì a sederci e conversare amichevolmente con essi. Sono d’accordo sul fatto che la voce di Elena sia il fulcro del romanzo. Essa svolge il ruolo che più mi interessava esplorare: quello di chi si prende cura di qualcuno, lo perde e continua a vivere nonostante tutto. Elena è una sottolineatrice compulsiva di libri, legge un po’ qui e un po’ là come chi cerca disperatamente i piccoli frammenti di uno specchio. Tiene un diario delle sue letture e in un momento annota che in realtà tutti i libri sono l’I Ching: li apre e all’improvviso si ritrova lì.
Sempre Elena scopre, in maniera del tutto inaspettata, una grande forza vitale in una sessualità adultera. Un amore trasgressivo di pura carnalità, quasi grottesco, vissuto, ironia della sorte, proprio con il medico del marito malato, il dottor Escalante. Escalante è quasi un “depredatore sessuale” che, confrontandosi ogni giorno con corpi decadenti, prosciugati dalla sofferenza, trova linfa vitale nelle imperfezioni del corpo, peli incarniti, talloni sporchi, brufoli, che divengono per lui simboli di bellezza. Esperienze estreme di due personaggi assetati di vita perché avvolti dalla morte. Cosa significa per lei sentirsi vivi ?
Quanto maggiore è la nostra coscienza della morte, tanto più grande è la nostra comprensione del valore del piacere. In questo senso il piacere è qualcosa di molto serio. Mi interessava che il sesso nel romanzo fosse pornografico, non tanto a livello fisico bensì a livello emozionale, cioè che i desideri, le paure e i conflitti fossero brutalmente visibili. Elena inizia a dubitare del corpo, addirittura ad odiarlo in quanto fonte di sofferenza e si aggrappa alla sessualità come unica via per recuperare il suo. Elena non è infedele per frivolezza bensì per sopravvivenza. Se non desidera qualcun altro, se non conferma in qualche modo che continua ad essere viva, allora morirà con chi sta morendo. La storia di Elena con il dottore è anche in parte metafora di questa sindrome di Stoccolma che sviluppiamo nei confronti dei nostri medici. Detestiamo andarci, tuttavia ne abbiamo bisogno più di chiunque altro. Serbiamo loro rancore e nello stesso tempo li ammiriamo; in un certo senso ci innamoriamo di loro. Prima di conoscere lo strano dottor Escalante Elena si sente grassa, imperfetta, brutta. Tuttavia, all’improvviso, scopre che tutto ciò che considerava brutto, adesso significa qualcosa di diverso: significa salute. Forse sentirsi vivi significa godere della nostra imperfezione.
Al centro del romanzo c’è il rapporto fra una padre che sa che deve morire e il giovane figlio di dieci anni. Complicità, dolcezza e la voglia di lasciare un grande testamento esperienziale con un ultimo viaggio insieme. Che rapporto ha con suo padre e che padre vorrebbe essere?
La paternità e la maternità mi hanno sempre affascinato letterariamente. Mi sembrano quasi esperienze di fantascienza, un incredibile esperimento con il tempo. Tutti i genitori desiderano e al tempo stesso temono che i figli crescano. Vivono preparando e al tempo stesso evitando il loro futuro. Mario scopre all’improvviso che gli manca poco tempo per prendere parte ai ricordi del figlio. Prende allora decisioni emozionanti, da un certo punto di vista postume. Decide di intraprendere un viaggio con suo figlio, di creargli un grande ricordo che gli duri per sempre, come se in questo viaggio si concentrasse una vita intera. Perciò il camion sul quale viaggiano corre avanti e indietro, agisce nel futuro e nel passato del bambino. La mia relazione con mio padre è ogni volta più bella. Una volta sono stato sul punto di perderlo e da allora mi sento il padre di mio padre. Dal momento che lui è un uomo generoso a volte accetta di fingere di esser mio figlio.
A ventidue anni finalista del premio Herralde con Bariloche, a ventisei di nuovo finalista Herralde, a trentadue arrivano il premio Alfaguara e il premio della Critica per Il viaggiatore del secolo. La prestigiosa rivista «Granta» la cita come uno dei migliori scrittori giovani in lingua spagnola. Siamo testimoni dei suoi successi e sicuramente assisteremo ai futuri. Ci racconta i veri inizi, quelli che non compaiono mai sulle biografie pubbliche?
Mi piace questa domanda perché i dubbi, le frustrazioni e gli errori di uno scrittore sono la parte più importante del suo curriculum. Tutti noi però siamo un poco ipocriti o codardi e per questo nelle nostre biografie preferiamo includere solo ciò che è banale: premi, elogi, antologie, tutto quello che ci ha insegnato poco. Sarebbe interessante a volte scrivere il nostro curriculum di insuccessi. Nel mio figurerebbero aneddoti deplorevoli e abbastanza divertenti. Il primo libro della mia vita, per esempio, lo pubblicai in una piccolissima casa editrice locale. Quel libro si distribuì appena nelle province andaluse di Granada e Jaén. Risulta inoltre che la casa editrice fallì e chiuse appena dopo avermi pubblicato. Fu così che liquidarono tutti gli esemplari e finii comprandoli io stesso. Ricordo che di quel libro si vendettero esattamente 182 esemplari, inclusi quelli che comprò mia madre, che furono la maggior parte. Non sono mai stato così felice.
* Traduzione dell’intervista a cura di Eleonora Tagni