A un certo punto non sapevo più letteralmente che cosa fare per catturare la loro attenzione.
Come si fa a tenere buoni una sessantina di ragazzi di prima superiore, in teoria raccolti davanti a te per sentire parlare del tuo libro, ma palesemente lì perché questo evitava loro un’ora di lezione di sabato mattina?
E allora, con quelle intuizioni che vengono dalla disperazione, ho chiesto: «Chi di voi mi sa dire che cos’è un espresso?»
Risolini, brusii, sguardi attoniti.
«Un caffè», dice uno di loro.
«Giusto. E poi?»
«Un treno», azzarda un altro.
«Certo. E poi?»
«Il participio del verbo esprimere», spara un terzo, tra i cenni di assenso divertiti dei compagni.
«Esatto. E poi?»
«Boh».
E finalmente silenzio.
«Un espresso è, o meglio era, anche una lettera. Quand’ero ragazzo, se ti innamoravi di qualcuno che abitava in un’altra città e decidevi di scrivergli, volevi che ricevesse prima possibile le tue parole scritte: un espresso costava un po’ meno della raccomandata ma era decisamente più veloce della posta ordinaria. Era il mezzo perfetto».
Succedeva pochi giorni fa, quando sono stato ospite di Leggermente, una rassegna che si tiene ogni anno a Lecco. E questo episodio mi è tornato alla mente sfogliando i quotidiani di questi giorni, ai tempi di Facebook.
Sembra impossibile, ma è esistita un’era – non geologica – in cui non c’erano Internet e i telefonini, si pagava con la Lira e la lotta tra le merendine era tra il Buondì e la Fiesta. Eppure riuscivamo a sopravvivere.
Quando ho iniziato a fare il mio mestiere, quello di giornalista, c’erano ancora le macchine da (mai riuscito a dire “per”) scrivere, le telescriventi stampavano le notizie di agenzia e si usava il telefono con il filo eppure i giornali uscivano lo stesso nelle edicole. Si faceva un po’ più di fatica rispetto a oggi, ma noi non potevamo saperlo, e quindi camminavamo per la nostra strada con la tranquillità di chi fa un lavoro comunque privilegiato ed è felice di farlo. Una notizia arrivava da un contatto personale, da un incontro, da una telefonata, dalla presenza in un determinato luogo in un determinato momento. Nessuno di noi poteva immaginare che nel giro di pochi anni le notizie sarebbero state recapitate direttamente sulle nostre scrivanie attraverso uno schermo collegato a milioni di altri.
Ci ho pensato leggendo due notizie di apertura, sparate su due pagine fronteggianti, così diverse ma con un comune denominatore: Facebook.
La prima: una ragazzina viene invitata sul palco da Justin Bieber durante un concerto a Casalecchio di Reno: le fan del giovane cantante, idolo delle teenager di tutto il mondo, iniziano a perseguitarla su Facebook e Twitter, con minacce pesantissime, tanto a costringere lei a chiudere i suoi account e a indurre i genitori a sporgere denuncia presso la polizia postale.
La seconda: Ivan Gallo, 39 anni, che lo scorso 21 marzo aveva rapinato una gioielleria del centro di Milano ed era fuggito con il bottino dopo aver assassinato con un punteruolo il titolare del negozio, il settantaquattrenne Giovanni Veronesi, è stato catturato perché su Facebook aveva postato la foto della piscina di un hotel di Marbella. Ed è stato proprio nella località spagnola che le forze dell’ordine lo hanno catturato senza che lui opponesse resistenza.
Qual è la morale? Nessuna. Facebook può diventare un incubo ma essere anche utile. Non è da demonizzare ma nemmeno da esaltare. C’è. Esiste. E va usato con buon senso.
Ma se è così, se è vero quello che sto scrivendo cercando di convincere prima di tutti me stesso, allora perché continuo a provare nostalgia per l’espresso (la lettera, non il caffè o il treno) e a essere preso da una leggera ma inesorabile ansia ogni volta che mia figlia accende il computer e si piazza davanti a quella schermata blu?
DANIELE BRESCIANI (Milano, 1962) è giornalista. Dopo otto anni alla “Gazzetta dello Sport”, nel 2003 è passato a “Vanity Fair” dove è stato vicedirettore fino al 2012. Attualmente è vicedirettore di Grazia. Questo è il suo primo romanzo.