Il 4 ottobre del 1852 non è un giorno come tutti gli altri. In quella mattina di autunno a Genova, all’ombra dei carruggi, viene fondata la compagnia transatlantica per la navigazione a vapore con le Americhe. È l’inizio, se si vuole simbolico, di un fenomeno che in qualche modo, cambiando mezzi e modalità, non si esaurirà mai: l’emigrazione degli italiani nella terra dei sogni, l’America.
La compagnia transatlantica costruisce i primi due grandi piroscafi, dando così la possibilità d’intraprendere il viaggio verso quello, che all’epoca, si riteneva non solo un continente, ma l’allegoria del futuro, quello vero, pieno di speranza.
In quegli anni, in cui l’Italia stava nascendo, in cui erano ancora tanti a “puzzare di fame”, milioni di persone partivano per il Brasile, l’Argentina, gli Stati Uniti.
Chi cercava un pezzo di terra da coltivare, chi un lavoro, uno qualsiasi da eseguire; chi voleva la fortuna con ogni mezzo, anche illegale; chi si rintanava nelle miniere; chi andava da solo, chi con la moglie e i figli; chi salpava in avanscoperta e chi moriva durante il viaggio; chi piangeva lacrime amare e chi aveva la testa piena di sogni; chi tornava per la nostalgia che lo attanagliava, chi per un amore abbandonato e chi partiva per dimenticarlo, un amore, in cerca di avventure.
Si viaggiava con il cappello in testa, il tabacco trinciato nel taschino, la valigia di cartone, il fazzoletto bianco (indispensabile per salutare i parenti al porto) e con gli occhi pieni di lacrime. Si navigava per giorni con la febbre, col cimurro, col colera in corpo.
E una volta finito il viaggio – spesso in stive vicino ai motori, un caldo da impazzire, un sudicio vergognoso, un puzzo di vomito ed escrementi – non si era ancora fatto niente. Toccava darsi da fare, trovarlo quel benedetto lavoro o quel sacrosanto pezzo di terra, rimboccarsi le maniche, aguzzare il cervello.
È un pezzo della nostra storia, c’è poco da fare. Ci dobbiamo fare i conti. Perché il tempo non cancella tutto, la memoria resta. Rimane negli scritti, nelle foto, nei racconti famigliari, e anche nel nostro DNA, perché siamo fatti di sangue e nervi, lo stesso dei nostri avi.
Anche oggi si emigra e sono soprattutto i giovani a partire. Nonostante il boom economico, il riflusso, l’edonismo reganiano, la new economy, l’Europa; nonostante le lavatrici, i tv color, le auto, il G8, il PIL, nonostante la fame non esista più, ancora oggi sono in tanti a decidere di “salpare”. Qualcuno li chiama cervelli in fuga, altri emigranti postmoderni.
Non espatriano per fame o per guerra, lo fanno, il più delle volte, per cercare soddisfazioni, per coronare sogni, lontano da un paese che spesso non è capace di regalarli. E l’America resta sempre una delle mete più ambite. Oggi ci si arriva in aereo, senza fazzoletto e con un pacchetto di Marlboro in tasca.
È tutto diverso, almeno all’apparenza, perché alla fine, giriamola come ci pare, emigrare non ha a che fare con i soldi, con l’orgoglio, con le pratiche burocratiche, sì anche quello, ma non solo; emigrare – a qualunque latitudine e a qualunque età – ha a che fare soprattutto con i legami: è una roba di sentimenti spezzati, di affetti infranti, di separazioni forzate. È il fatto che abbiamo paura della nostalgia anche prima di avere il diritto a provarla.
Ovvero quando siamo lontani, come il mare da noi.