Autore: Joy Williams
Data di pubbl.: 2017
Casa Editrice: Black Coffee
Genere: Raccolta di racconti
Traduttore: Sara Reggiani e Leonardo Taiuti
Pagine: 660
Prezzo: € 18,00
La casa editrice Black Coffee propone al lettore italiano un’ampia, ragionata selezione di racconti della scrittrice americana Joy Williams. Nata nel 1944 nel Massachusetts, autrice di quattro romanzi e di una guida turistica non convenzionale delle Florida Keys (isole tropicali a sud della punta meridionale dello Stato, scenario di un film seminale all’interno della cinematografia indipendente anni Settanta, Night Moves di Arthur Penn), Williams, grazie ai suoi racconti, ha vinto numerosi premi. Nell’ottima prefazione di Mariarosa Bricchi è segnalato il carattere nomadico della scrittrice, pendolare tra l’Arizona e il New England a bordo di una vecchia Ford in compagnia dei suoi cani. Nei testi di Joy Williams la descrizione di una middle class smarrita nelle immense periferie suburbane si fonde con il senso di sublime, di incombenza, che scaturisce dal paesaggio americano. Il potere evocativo della parola si intreccia alla narrazione minimale, analitica, riconducibile alla lezione di Raymond Carver.
La lettura di questi racconti, oltre a Carver, rimanda a John Cheever per contenuto e atmofere e al tratto narrativo di Grace Paley. Ad un livello ancor più profondo, strutturale, Joy Williams ricorda l’attitudine alla composizione tipica di un grande maestro della fotografia contemporanea, Stephen Shore. “Quando scatto una fotografia, le percezioni alimentano il mio modello mentale… è una complessa, continua, spontanea interazione fra l’osservazione, la comprensione, l’immaginazione e l’intenzione”. Ad un occhio disattento, gli scatti di Shore possono sembrare convenzionali, banali, ma è un inganno. La visione è attratta verso un punto di rottura, una linea di tensione inizialmente inavvertita che fa vacillare l’insieme e allo stesso tempo lo decodifica, gli attribuisce un senso, una consistenza ontologica, un’autenticità estetica. Allo stesso modo, la scrittrice relega la chiave di volta del racconto ai margini del quadro, appena sotto la superficie, nel baluginare di un frammento di verità dissepolto da un gesto, da una parola. La quotidianità perde la sua trama ordinaria e il nuovo campo di forze si coagula attorno alla crepa, a volte minuscola, ma decisiva.
Si prenda Chimica Invernale. Judy e Julep sono due amiche quattordicenni affascinate da Debevoise, un insegnante trentaquattrenne. Quando lui è in casa, lo spiano da lontano con un binocolo, nascoste nella macchia, in un campo coperto di neve. Judy tra le due è la più esuberante, piace ai ragazzi, mentre Julep è esile, timida, impacciata. Judy e Julep sono adolescenti attirate dalla ragnatela del proibito. Poi, accade qualcosa. Una frase sgraziata di Judy, una febbre che confina Julep a letto per tre settimane, e gli equilibri si fratturano fino all’esito tragico, degno di un episodio di Fargo. Spesso, è un’ossessione ad indirizzare i rapporti umani lungo una direttrice di desolazione, come in Ruggine, dove la passione per un’auto, una cadente ‘Thunderbird’, che Dwight trova in un parcheggio (con un cadavere al volante!), diventa ragione di vita, vezzo maniacale, feticcio che sostituisce il pensiero di una maternità negata alla moglie Lucy, fino alla svolta ironica, crudele: Dwight decide di portarsi la Thunderbird dentro casa, in mezzo al salotto, per osservare dall’abitacolo, con Lucy accanto, la pioggia che scende fuori dalle finestre. O ancora, ne La Pattinatrice, il viaggio dalla California di Tom e Molly, finalizzato alla ricerca di una scuola di prestigio per la figlia Annie, nel New England, lascia trapelare il trauma, la mancata elaborazione del lutto dopo la scomparsa dell’altra figlia Martha. Una pista del ghiaccio, nei pressi di uno sperduto e diroccato albergo, è lo sfondo allegorico di un’intesa familiare incrinata e compromessa.
Malattia e morte sono topoi ricorrenti. In Riguardati un predicatore accompagna l’amatissima moglie nel suo calvario medico. «Il suo sangue si muove come le costellazioni». Ne Il piccolo inverno, di una bellezza disarmante, Gloria, una donna con poche settimane di vita, tenta un’ultima fuga per sfidare l’assurdo della propria condizione. «Era su di giri e sapeva che presto sarebbero sopraggiunti la stanchezza e il senso di disagio, ma forse questa volta non sarebbe andata così. Era una giornata luminosa, limpida dopo la pioggia. Sulla strada giravano le foglie, verdi e fresche». In L’ospite d’onore, racconto che dà il titolo all’intera raccolta, Helen, una figlia, si predispone all’imminente perdita della madre, Lenore. Forse l’esistenza degli esseri umani, apprende Helen, non si scosta molto dalla sorte riservata ad alcuni orsi giapponesi, sacrificati negli ancestrali riti del popolo Ainu. Cresciuti e trattati con tutti gli onori come ospiti di riguardo della comunità aborigena, gli orsi venivano infine torturati in rituali di rara efferatezza. «Essere uccisi è un privilegio. A volte ci penso… a volte penso che vorrei che mi uccidessero. Così, dal nulla, senza avvertimento, né ragione. Non crederei a ciò che vedo. Sarebbe come non morire affatto». Nell’inquietante Marabù, dalle sfumature lynchiane, una madre è costretta a fare i conti con i minacciosi amici del figlio deceduto e a conciliare il suo mondo privato con una sfera di relazioni ignota e sfuggente. «Spense le luci e si sedette nell’oscurità della casa. Non trascorse molto, come immaginava, che il telefono iniziò a squillare. Squillava e squillava ancora, ma lei non doveva rispondere per forza. E non lo avrebbe fatto».
Strade interminabili, natura ingrata, cittadine ai confini della civiltà, paesaggi schiantati da un sole a picco, hippies fuori tempo massimo, bambini condannati a vivere nel cono d’ombra di adulti mai cresciuti. I racconti di Joy Williams esplorano una geografia ben nota ai cultori di short stories, eppure la scrittrice è in grado di stupire associando un granello di non-detto, una vena di chiaroscuro o una componente di silenzio rivelatore, a rapide, vivide pennellate di duro realismo. Chi è Darla, la tata ricordata con trasporto emotivo dal giardiniere, nello splendido L’altra settimana? Assomiglia davvero a Francine? O nella somiglianza vi è un quid che trascende il piano razionale e lo ribalta? E che fine hanno fatto il marito di Francine e il cane? Forse la realtà è più d’una? I racconti ci mostrano destini individuali in pericolo, coppie a rischio di frantumazione. In Carità la scelta di Janice di ritornare indietro, da sola, dopo aver abbandonato il marito Richard in un’area di servizio, a soccorrere una bizzarra famiglia di camperisti rimasti a secco, è il grimaldello che scardina la porta delle infinite possibilità, ma sotto ogni possibilità si cela un sentimento di paura.
Mariarosa Bricchi ha notato la freddezza della scrittura di Joy Williams e il suo indugiare attorno ai nomi, come se l’autrice volesse ricavare qualche verità dalla magia del nome pronunciato. A quanti incantamenti è soggetto un essere umano? Come se ne libera? Nessuno si aspetti colpi di scena eclatanti, in questi quarantasei racconti. È una prosa cristallina, refrattaria alla facile empatia, che sottolinea con insistenza la contiguità, se non la confusione, tra le diverse e conflittuali dimensioni dell’esistenza, piacere e dolore, gioia e rimorso, nostalgia e speranza. I racconti non possono essere amici dell’uomo. Lo colpiscono a tradimento, eppure, suprema ironia, è impossibile farne a meno.