L’ElzeMìro – Mille+infinito – Persone nella norma

1. Dove si scopre di ognuno il Pinìn

C’è una domanda ed è evidente che non puoi darle risposta se non per tuo conto oppure, sì, la replica più ovvia sarebbe non ascoltarla proprio. Le cose da raccontare si scelgono qui da un personale form inferiore ma, ecco qua, perché mai uno si occupi della vita di un imbecille o di un filibustiere questa è la domanda che non è raro affiori. È vero che ogni bassezza con gli opportuni accorgimenti si incorona ; la fa da sé – lo avrai presente il Bonaparte – e allora fonda o sfonda e affonda imperi, ed è grazie al talento di vetrinista di qualcuno oppure di venditore di un altro, e allora via che va su per le scale mobili dei bestsellers, fino alla caduta o, per lo meno alla fessura, alla crepa che dello schianto sono il tic-tac d’esordio. Peraltro c’è, credo ti possa suonare, c’è che qualsiasi collinetta, persino una gobba nel terreno del giardino può diventare ein Zauberberg, una montagna magica. Dipende dalla quota del punto di osservazione. Prendi i Buddenbrock, un battaglione di montagnardi del capitalismo, althoch-Brianzolen che diventano materia di incanto grazie agli opportuni sortilegi di un mago di quel lego che è la letteratura, nel vortice delle sue capacità combinatorie : chissà se hai in memoria Topolino apprendista stregone che volteggia frenetico sullo schermo di Walt Disney. E guarda il valzer, che è coitus reservatus. Mà maramamammà disbrogliamoci orsù dalla padùle dei preamboli.

Pinìn fa Di Curzio all’origine. Cioè quando nasce e finisce con ïenne, in quanto al limite dei pesi gallo categoria bébé, ovvero circa 2425 gr. al venire alla luce fuori dalla sua iniziale biosfera. Quindi non ti confondere, Pinìn non è diminutivo di Giuseppe ma diminuito dop. Un accessorio connotativo sarà nel tempo picadòr, Pinìn Picador, nomignolo voluto dallo zio di Cadice, cioè domiciliato e impiegato a Cadice, ambito agroalimentare, ma nato ad Afravóla in quanto Pasquale Pepe e fratello della mamma di Pinìn, Despina Pepe. Chiacchiere. Ai genitori battezzanti, per un cittìno così piccino, parve Giuseppe un eccesso di fiducia nella sorte, sicché meglio Pinìn, da dire con generico tono affettuoso certo che sì, ma pensato in primis perché semplice da usare a correggerne le irrequietudini a venire e in secundis per evitare nel non lontanissimo futuro che qualcuno diminuisse l’eventuale Giuseppe in un probabile Pino ; che farebbe carrozziere, barista o parrucchiere di paese, metti Pino idea capello, e i Di Curzio ay ay sempre sentiti una rampa di scale più in alto. Si sappia peraltro che in età adatta, l’ingegno degli scolari pel minimo comune minimo farà di Pinìn un Pin proprio come le spille ; per non dire Giù che in effetti capiterà di sentir chiamare fino all’eccesso delle sfottò, Giù vieni giù. Invece, con picadòr, ossia il garrochéro a cavallo che con picca o pungolo ha(veva) il compito di istigare il toro alla furia nell’arena, ficcandogliela, la picca, nel groppone, lo zio Pasquale di Cadice evocò in Pinìn questa virtù o anomalia piccante, secondo di come si vogliono vedere le cose. Torellino o cinghiale o piuttosto lupo manifesto all’istante dell’attacco alla materna tetta il bimbìn vampiro dalle inattese gengive di cuoio, strappò alla povera mammifera Despina un grido e, Mostro mostro mollami, gridò l’infelice, stigmatizzata da uno scaracchio della vecchia Di Curzio, Sentila tè sta terona al mè nevod (ma senti té che cosa dice mai questa zappaterra di mio nipote), sparato negli orecchi al babbo-figlio-moroso, trinità presente nella stessa persona all’evento ; il quale, se vuoi lə qualə, per la ben nota verecondia padana, tuttavia tacquero. Lei, la Despina, stante la propria nascita senza colpe al Sud, cioè all’origine del mondo, avrebbe trovato segnali di malaugurio nelle stelle di quel pargoletto, mostro mostro e per l’appunto picadòr. Nolente e volente però si adattò, conservandosi sempre una scorta di sospetto o meglio di scarto, prendilo se vuoi da gattoparda, man mano che mostro mostro crebbe in volume e scoprì con gusto e imparò a far uso della parola polemica e pungente e non poco sgraffiante come surrogato delle dentate – la bocchina di Pinìn fiorì di dentini aguzzi in lieve anticipo sulle aspettative – e qualche volta dei calci ; dapprincipio furono questi i suoi strumenti standard per manifestare l’insight del Nessuno ronzante che gli annebbiava la vista del suo nascente Narciso. Edipo si sa che si acceca da sé ma anche Polifèmo il palo nell’occhio se lo andò a cercare, Ulisse fu la circostanza. Poi per tutto il periodo detto della crescita Pinìn montò poco in statura ma proprio in parole ovvero assai d’arroganza. Quale mètro – detto métro come vétro e gréto nel triangolo lario-mincio-ticino – quale mètro possa usare un’intelligenza per pesarne il peso o misurare l’estensione di un’altra, se è una questione non lo è di poco peso o mètro ; ma tra parenti e circondario ci si adattò a quel trend per via che nel Pinìn, a loro occhi e orecchi per voce comune, lo giustificava l’intelligenza, a detta di tutti da vincitore : mordace non meno dei suoi denti. Ma più che il ben dell’intelletto, sopravvalutato benché forse nella norma mica credere, il resto era conformazione – deroga dell’anima ebbe a dire il parroco di Curzio – attitudine, ossia carattere di merda ; tuttavia, vuoi per orgoglio di razza vuoi per larvata e inconsapevole comune presunzione, fu da quel bagno di dotazioni intese intelligenza che affiorarono nei cuori comuni e comunali la fotografia e la radiografia di Pinìn. I gruppi lo sai, vedono nei singoli riflessa l’immagine che li abbaglia di un sé collettivo o, viceversa, quest’ultimo è la proiezione dello stordimento, dell’ebbrezza, dell’apoplessìa di ogni singolo : ti sarà capitato di sentire il pensionato in turno allo spritz delle dieci che dice, Ehh ma Noialtri si sa leonardo e michelangelo, o una po’ più po’ meno simile assurdità. D’altra parte e circa Pinìn, la cuoca e tuttofare di casa, Locanda – ignote origine e ragioni di quel nome – ma donna dalla vista lunga e acuta, ben lo capì al Pinìn nel suo cuore e da subito ; sicché nel suo cuore, se lo ribattezzò mussolino con una emme piuttosto minuscola ; nel suo cuore, perché inopportuna e rischiosa per il suo posto di lavoro sarebbe stata per lei una mozione pubblica di verità, levata a fare inciampare nella realtà i sentimenti, cioè le fantasie dei Di Curzio, zénte di cangiata a suo tempo camicia nera con lo sparato bianco della colomba democristiana – e poi tra loro non che mancassero i cacciatori e quindi anche le colombe, specie a pasqua – ; ed è risaputo che tutti o gran parte di coloro avrebbero poi, al dì d’incoeu, scelto di imbracciare il forcone e il pick-up populacier ché quella era la loro tenace e mai dismessa identità als Volk mit Führer. Insomma Locanda non si sarebbe azzardata a nominare il nome del vecchio divo in gambali se non con la emme che tra i Di Curzio si preferiva, maiuscolissima ma moderata ché la moderazione per carità, coniglia e sottomessa, era tuttavia come lo stemma di famiglia. Attenzione però.

È utile precisare che i Di Curzio, erano una massa quasi esclusiva di cugini e zie, ma non lasciare che il nome di familia ti racconti di corone e di palle in capa a contee o baronie, ma solo che, fin dai tempi in cui il Lambro era pescoso e navigabile per abbondanza d’acque e chiare e fresche che passavano di lì, i Di Curzio provenivano da un comune, Curzio, novecento abitanti all’ultimo censimento, grande, Curzio, chissà come un campo da calcio e del tutto privo di belle castella salvo una villa di quelle note per un casuale qui sostò, e una basilica di fulgente bellezza e affreschi in rovina e prima che romanica, ovvero carolingia o ottoniana la descriverebbe uno storico d’arte. D’arte e di storia, i curziardi – ebbè amano farsi chiamare a questo modo – se ne fottono e anzi danno loro fastidio i radi turisti culturali che arrivano fotografano e disdegnano di accattàrisi un toast surgelato nel bar mokaràr nella piazza del sagrato e complesso archeologico, il bar, di fòrmica, tubolare di acciaio e pegamòide giunto deteriorato ma intatto dai tempi delle prime Fiat 600. A Curzio non mancò un tentativo di osteria caratteristica, Dal Bardo Bruno cucina addomesticata, per via della voluttà del titolare, Bruno, di intrattenere gli ospiti declamando tra una portata e l’altra i suoi poemetti, per sua voce neo-romantici, per esempio in tuo sol benché m’immerga e affondi/ oh beneamata io mi rattristo/ al pensare ch’ogni sol tramonti/ ma mi rallegro che al tuo tramontare/ io pure in te mi struggo. Risale, questo tentativo di specchio per allodole, alla caduta del muro a Berlino ma con quell’evento non condivide che la coincidenza, del resto cominciò a fallire dal giorno della sua inaugurazione fino a quello in cui ne fu dall’ assenza di avventori e dalle carte bollate sancita la fine. Intorno, chissà se meglio è dire al villaggio, intorno comunque ma ormai seguiti e curati alla sanfasò soltanto la domenica e festivi da contadini fattisi titolari di tutto, da officine snc, a noleggi auto ncc o addirittura a mega concessionarie di suv multimarca, intorno i residui di qualche coltivazione ma soprattutto capannoni, capannoni a distesa come suon di campane ; resta ora da aspettare che il comune rinunci alla propria moderazione e approvi l’ipotesi di un centro commerciale e là dove c’éra, – c’éra ed éra come méla e péra dicono i curziardi per kelle terre per kelle fini que ki contene – là dov’èra la più vasta delle locali tenute agricole, con bosco secolare degradante da un lieve rilievo sul laghetto formato per caso dal Lambro, e annesse e abbandonate cascine e stalle e stalli e fienili magari di epoca caravaggesca e villa padronale 1801, morti ieri i vecchi proprietari del compound, oggi i figli, eredi di quei beni agricoli, fattisi l’uno immobiliere a Milano, l’altro chirurgo a Brescia, una architetta a Lecco, e la minore direttore sanitario di clinica estetica a Bergamo, i figli tutti dunque sono riusciti a fare che il sindaco di Curzio ne mutasse, dei campi, la destinazione d’uso, da agricolo a edificabile, e che dalla villa le belle arti tenessero gli occhi a distanza di svista : dunque vendere e venderemo. Invece i Di Curzio, Buddenbrock locali appunto, emigrati a Milano dopo del Metternich e da duecento anni nel tessile all’ingrosso e nei quattrini per conseguenza, dai tempi cioè in cui con tessuti vari si facevano tutti i tipi di coperture che non comportassero opere lignee o muratorie di qualsiasi natura e infine, con la materia più fine e diversa, abiti, abiti, abiti : giacche, redingotte e pantaloni, gonne e sottogonne cappelli, bustini e persino costumi teatrali. All’apice della ricchezza i Di Curzio fornivano tele, lane, canapa, lini, sete e cotoni di ogni grammatura a tutto il Lombardo-Veneto senza escludere le provvisioni per l’esercito austriaco e con licenza della duplice k.u.k. imperial regia corona di Vienna. Forniture militari mutatis mutandis proseguite con il regio esercito savoiardo e per il primo sforzo bellico mondiale ; poi di nuovo e sempre a mutande mutate, con l’orbace da camìcie nere e poi e poi e poi passata la guerra gabbato lo santo, la pax vobiscum, la scomparsa delle sartorie artigiane e l’avvento della confezione industriale e filati di mano in mano sempre più fini per contenere i prezzi e far lievitare i profitti : con quello con cui un tempo fabbricavi un pantalone, oggi ne fai cinque, la grammatura ha da essere di un soffio. Del resto, il cambiamento climatico la moda pronta l’ha scoperto e forse, non è detto, persino inzigato ; e ha preso a confezionare capi tali che l’aria vi passi a tenere appunto mutande e annessi freschi e asciutti, là sotto. I Di Curzio di oggi, più che memori, vivono arroccati nel logo mai modificato della loro carta da lettere, ossia come se, per quanto recente, l’avvento dell’Euro non fosse stato per l’Europa il corrispettivo della stampa di Gutenberg. Sono ancora benestanti, ricchi a modo loro ma limitati oggi a fornire filati di un certo pregio alle sartorie per il cinema, sparse un po’ dappertutto e ai minuti contoterzisti che fabbricano per le grandi case di mode, ovvero per gli stilisti. Peraltro la Cina è vicina e quindi allegri ma sempre moderati e risentiti bisogna stare.

Tutto questo detto s’ha a dire che Pinìn nasce in casa Di Curzio meno di cinquanta anni fa e, ripetendo i repetìta, mingherlino alquanto. La famiglia possedeva per intero e vive ancora casa e bottega in una fetta di un grande compound industriale, tutto vetro e mattoni ; comune il cortile del loro magazzeno con i dismessi e antichi mulini Steck i cui spazi in città, nel triangolo Monumentale, Bramante, Canonica, ovverosia in città cinese, sono stati convertiti in studi di ogni natura e destinazione, di registrazione, architettura, di una stilista, di un immenso Dental Care e di una clinica polispecialistica milanese. Sopra il magazzìnzèn tutto di legno, l’ufficio amministrativo e l’abitazione, enorme, trecento metri quadri di soffitti metrocubici, pavimenti in mattoni coperti oggi da parquet flottante a listoni, riscaldamento a termosifoni di ghisa poi sostituiti da un costoso ma efficiente sistema a pompa di calore. Fatto quest’affresco su pesi e misure della sostanza economica e sul potere probabile della famiglia, qualche osservazione specialistica sul proto Pinìn. Che si diede subito conto del fatto che il termine adulto configura ipso iure e de facto uno sparaballe. In buona sostanza che il piccolo, per crescere e per campare poi da bipede maturo, vedi che fa, che mentisce, la conta su ossia, come usasi dire, se la suona e se la canta ; in modo tale che la realtà si modelli sui desiderata ambientali e certo non solo, anche dei propri. Le relazioni si sa che sono un gioco di aspirazioni, appetiti e avidità che non è detto siano rispondenti a istanze di vero, bello e buono, tutte e tre insieme immagini che hanno bisogno di essere messe a misura di quei concreti desideri, spesso ignoti a chi li esprime nella loro aspecifica sostanza e tali che, nascondendoli appunto, ovvero con metodo mentendoli, si possano realizzare ; alla fine, per non dire soltanto a condizione di annebbiarne i connotati grazie all’esercizio della seduzione. Piccolissimo, accucciato sotto il bancone nel magazzèno, Pinìn curioso ascolta il traffico delle voci sopra la sua testa come si ascolterebbe la radio ; si accorge che il babbo coi fornitori o coi clienti, non dico, non è nemmeno che racconti balle, gli viene spontaneo, per dire così, contare le magnifiche sorti e progressive di questo o quel cotone, di questo o quel makò, del bemberg per le fodere o del cencio di nonna ; di arricchirle di particolari accattivanti, tutto nel misero lapse of the time di una piccola contrattazione per fornitura : vendere e venderemo. Ma il cliente, sedotto se ne va felice e poi, nella stessa maniera farà lo stesso con i propri clienti. Insomma Pinìn capisce che fornitore vuol dire imbonitore. Il papà Ernesto si alza la mattino presto presto e dopo senza altro nutrimento di una sigaretta e due caffè, Pinìn lo ascolta dire sempre la stessa frase, Vado giù a vendere. Nelle umane relazioni non è come coi gatti che il piccoletto ama, quei selvaggi nel cortile della ditta, ma come coi cani del padre sempre pronti a uggiolare, a fare gli occhi dolci e, proprio per questo, detti così umani, perché te la raccontano i cagnoni, pretendono, ostentano e prìllano e pìrlano e mica sanno perché.

Pinìn invece non gliene fotte una cippa di essere complementare al benessere del suo interlocutore, nonnoronò. Se non gli piacerà un regalo, vederlo come fa ; con calma, lo sguardo puntato oltre la frangia di capelli biondi e lunghi, la messa a fuoco all’infinito come un budda accoltellatore, ah glielo dice eccome al donoferènte, sans aucun souci, Non mi piace ( zio/a) ce l’ho già non so che cosa farmene e poi è un giocattolo da femmine. Se e quando gli capiterà di essere ospite in casa di questo o quel compagno di scuola, se non gli piacerà qualche pastasciutta, in quanto scotta o scondìta o mal condita o condita di stranezze da regioni aliene, niente complimenti alla cuoca, sia che si tratti di padrona di casa e dei fornelli o prezzolata all’uopo e in crestina e devantàle bianco ; con leggerezza soffia da sotto la frangia bionda, No grazie signora la pasta così non la mangio e si accontenta poi di pucciare il pane nel sugo del polpettone, se c’è, per secondo con contorno. Ci fu da principio, ci fu un episodio che fondò e conturò la vita di Pinìn di un’aura mitica come quella del piccolo Ercole… e lo meglio mobile di familia, lo zio Augustino professore di greco al liceo classico Sarpi di Bergamo, suggerì che per scherzo il minimo Pinìn si chiamasse infatti Ercole per via della testa che, che agli occhi suoi di professore, si presentò come un grosso cubo… Eccutille, lungariell ‘o fattə.

Pasquale D'Ascola

P. E. G. D’Ascola Ha insegnato per 35 anni recitazione al Conservatorio di Milano. Ha scritto e adattato moltissimi lavori per la scena e per la radio e opere con musica allestite al Conservatorio di Milano: Le rovine di Violetta, Idillio d’amore tra pastori, riscrittura quet’ultima della Beggar’s opera di John Gay, Auto sacramental e Il Circo delle fanciulle. Suoi due volumi di racconti, Bambino Arturo e I 25 racconti della signorina Conti, e i romanzi Cecchelin e Cyrano e Assedio ed Esilio, editato anche in spagnolo da Orizzonte atlantico. Sue anche due recenti sillogi liriche Funerali atipici e Ostensioni. Da molti anni scrive nella sezione L’ElzeMìro-Spazi di questa rivista  sezione nella quale da ultimo è apparsa la raccolta Dopomezzanotte ed è in corso di comparizione oggi, Mille+Infinito

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