L’ElzeMìro – Dopomezzanotte-A quattrocchi

Oh tiresia tiresia… con questo quasi inconsapevole enunciato soleva mr. Tómbolo inaugurare da tempo ogni nuovo giorno ; specie se il nuovo giorno era di quelli, uno per tutte le stagioni da anni ormai consueti, senza una nuvola né una velatura ad augurare la possibilità di una pioggia utile ai campi ma con un sole da spiaggia a determinare, anche a dicembre, una nuova giornata californiana ; intesa bella per chi proietta con costanza in avanti il proprio esistere al privilegio delle proprie vacanze al mare, ovvero all’ostensione di varici e pance, non solo piatte ma anzi, e di bikini ripieni di promesse ; o da chi con attitudini più filosofiche nel sole vede una terapia, una speranza, un far luce dove prima mancasse. Ci sono invece persone che nel sole vedono un ostacolo, un fastidio se non una minaccia e dunque assimilabili ai vampiri, la cui predilezione per il crepuscolo, twilight, per l’oscuro, ha ben consolidate, remote e valide legittimazioni. C’è da supporre che Freud, per motivi clinici, fosse una di queste persone e anche mr. Tómbolo lo era, sempre per motivi clinici ma di opposto segno. Oh tiresia-tiresia, rimuginava dunque tra sé alludendo a quel tale greco che cieco, non-vedente nell’involuto lessico moderno, vedeva il vero pare ben oltre la capacità dei suoi occhi ma per lo più in campi che riguardavano molto la psicologia del profondo, in questi termini allora ignota, forse la psicologia delle masse, idem, ma di sicuro poco il prezzo del pane dopodomani a Tebe. Tómbolo, per il resto, di Tiresia sapeva la vulgata, ignorava la vicenda mitica del personaggio, implicato in una diatriba circa la questione di chi tra maschio e femmina a letto più si compiaccia – secondo una leggendaria ma non infondata opinione, il maschio nove volte di meno della femmina – e che tra l’altro fu dagli dèi per sette anni mutato da maschio a femmina e poi di nuovo a maschio. Semplificazioni di genere olimpico superate oggi da una nomenclatura fittissima di distinguo.

Tómbolo di mestiere faceva il maestro di arti marziali, dirigeva una propria scuola in una zona mista tra il residenziale e il commerciale della città dove aveva facilità nel far pagare quote di iscrizione proporzionate alla promessa di far conquistare, attraverso il combattimento, il dominio di sé in ogni ambito della vita e del lavoro. Fin dalla giovinezza si era incapricciato della cosiddetta filosofia orientale infatti e così amava far levitare per strada sulla folla del sabato un noli-me-tangere regolato dalle labbra in un sorriso da budda incarnato, ossia bodhisattva. Peraltro, si allenasse o desse lezione, la giornata di mr. Tómbolo era una fantasia sulla disciplina, sulla via del bushido, ovvero del samurai, giapp. bushi. Si sottoponeva ad allenamenti strenui, prediligeva il palo immobile, ovvero la stazione ferma in una figura di combattimento, per ore ; pensava di sviluppare ogni giorno una supereroica energia interna, il ki ; l’Agakure, il libro noto più che altro per un film di Jarmush, era la sua lettura quotidiana, si esercitava alla calma e la recitava alla perfezione soprattutto con gli allievi i cui maldestri attacchi egli riusciva facilmente a tramutare in disfatte sulla morbida superficie del tatami, il parquet da combattimento. Allo specchio egli si percepiva inondato da un luce aureolare. Benché gli fosse facile prevedere la mossa di un avversario che gli si avvicinasse alle spalle, questa relativa capacità non lo soddisfaceva. Tómbolo aspirava alla visione, alla veggenza, alla preveggenza ; al piegare il tempo ad angolo piatto. In verità il buio delle sue notti era scompigliato da sogni cui al risveglio, per mancanza di un metodo e di qualche certezza nel dipanarne l’eventuale trama, attribuiva la forza di un sasso scagliato nella laguna della sua mente, ancora turbata dall’ego, diceva allo specchio cui dava valore di contraddittorio. Attrezzandosi per le sue abluzioni mattutine, gli era arduo il tentativo di incollare i brincelli di immagine con cui di solito i sogni fanno la loro comparsa sul bordo della ragione ; non trovava le connessioni tra questo e quello, tra prima e dopo, tra tra e fra. Dava fuoco al gas sotto la moka occupato dal pensiero che, da lì a pochino, l’ingegnosa macchinetta avrebbe estratto dalla preziosa polvere di caffè la certezza delle ben nota bevanda tonica. Tómbolo usava darsi una strigliata col caffè e poi, per chiudere il suo pasto del mattino, che spesso à la mode buddhiste era l’unico, si mesceva frequenti tazze di tè verde durante la mattina e il giorno ; frequentava spesso il bagno a motivo di ciò e i suoi reni se ne compiacevano ; frequentava anche il libro di divinazioni cinese, l’Iching o libro dei mutamenti, il 易经, convinto che fosse un esercizio utile nella difficile arte di dare senso ai segni. Sicché : esamina dapprima le parole, medita tutto ciò che esse intendono, le norme fisse allora si palesano. Se tu però non sarai l’uomo giusto, a te il significato non si svela.

Meditava. Spesso dai segnali che la strada gli offriva, un gatto che gli apparisse sulla soglia di un portone, un barbaglio del sole in una vetrina, la foglia o il ramo che gli cadessero ai piedi lo mettevano, era sua convinzione, sull’avviso di un prossimo accadimento ; qui Tómbolo tombolàva perché per solito non succedeva nulla a ridosso o nel prosieguo di quell’evento, né il giorno appresso, né dopo, nulla di riconducibile a quei minimi indizi. Dei propri occhi non si fidava e, come si dice, ciò che gli appariva con un becco, due zampe, delle piume e l’andatura di un’anatra non era convinto che fosse per certo un’anatra.

Tutti sanno e accettano volenti o nolenti con maggiore o minore acquiescenza che se è facile scrutare i solidi di qualsiasi natura e curare quelli meno solidi di carne e sangue grazie alle benemerite scoperte del dottore Röntgen e della signora Curie ; se l’impenetrabile e l’in-divenire fino alle più fini particelle è alla portata di ecografi e scanner a risonanza magnetica ; se quasi con il solo ausilio dell’algebra un buon meteorologo riesce ad avere ragione delle nuvole ; se in politica e scendendo di livello lungo la scala dell’aruspicìna è possibile prevedere l’esito di una votazione ; se con meditata osservazione del campo di gioco e dell’avversario lo scacchista riesce a chiudere in scacco il re e senza spargimento di sangue ecco, se tutto ciò è possibile e non senza impegno, occorre dire che è nel groviglio del tempo in quanto tale molto ma molto difficile districarsi. Era materia di Tiresia appunto il tempo ; e di Cassandra la divinatrice di disgrazie fino all’ultima ma non vista, la propria e la peggiore attenendosi a Omero : mentre gli Achei si indiavolavano per Troia, la prudenza se non addirittura una certa furbizia le avrebbero meglio consigliato di non perdere tempo con la statua di Atena ma di darsela a gambe. Non risulta peraltro che vedere il dopo, il domani sia una necessità delle tigri e il gatto di casa prevede il terremoto nella misura in cui le vibrazioni della terra, gli arrivano per un dono di natura, amplificate, toccano la sua sviluppata sensibilità. Ecco perché l’umano si è dotato di mezzi per vedere almeno dentro se non oltre. La televisione, a dispetto del suo nome eccessivo è un Pizia che non vede lontano ma agita ombre da lontano ; in questo assomiglia però proprio a quella signora che, allucinata dai gas della propria grotta santuario, forniva ricompense agli occhi dell’illusione e agli orecchi della speranza nei visitatori. E l’allucinazione indotta da certe sostanze, non si escluda per indulgenza l’alcool, non trasporta in nessun oltre che non sia dovuto alla combinatoria di elementi chimici. Il movimento surrealista scambiò per visione ultramondana i propri mondanissimi tocchi di pennello. Tutto ciò che si tocca è hic et nunc, per quanto inventato possa essere. Oltre il quadro c’è un muro.

E ai muri mr. Tombolo era convinto che si potesse andare oltre ; che con un profondo atto di convinzione si potesse eliminarli dal proprio orizzonte, via fluff con un colpo di swiffer : questa stanza non ha più pareti ma alberi… alberi infiniti, gli ricordava la strofa di una vecchissima canzone. Come chi in funivia non guardi giù dai finestrini l’abisso sotto di sé ma limitandosi a guardare la punta dei propri scarponi piantati sul pavimento della cabina oscillante al vento, provi tuttavia la stessa vertigine, mr. Tómbolo pensò che per aprire la mente alla vertigine, fosse necessario non alimentarla ma metterla a dieta. Non potendosi permettere costosi viaggi in un segreto ma a lui noto monastero giapponese – fuor dalle mura del quale peraltro avrebbe dovuto accettare una severa e forse inconcludente canossa – decise di partire per passare un certo periodo di tempo lontano dalla luce, nel crepuscolo di un monastero non meno ritirato dal mondo. Se stare lì chiuso in quel circolo di silenzio e passeggiate attenti solo al proprio camminare nei boschi e  ascoltare la messa in latino – che apparteneva tuttavia alla origine della sua tradizione cattolica – furono uno svago ; se la biblioteca era interessante, se accettare la dieta dei monaci fu relativamente facile e non difficile compensarne l’ospitalità  con il lavoro nella farmacia monastica a preparare unguenti anti-aging e anti stress da ossidazione, dopo un po’, si era in inverno, la sua determinazione abdicò da sé stessa di fronte al freddo. Radunò le poche cose che gli era stato concesso di portare con sé dal mondo, salutò tutti, baciò abbracciò ; raggiunse il suo suv parcheggiato lontanissimo dal compound monacale, ricollegò la batteria, ci saltò dentro, avviò il motore e per prima cosa mandò a manetta il riscaldamento dell’abitacolo. Tornò a casa.

Passarono dei mesi in cerca di nuovo isolamento. Decise di mantenere la proprietà della scuola ma ne affidò la gestione e la cura al suo migliore allievo. Smise quasi del tutto di uscire di casa perché i suoi sensi non venissero turbati dalla pubblicità murale, dalle vetrine di intimo, dall’orrore che gli procuravano i passanti, i loro vestimenti vistosi, dal chiasso, dall’aggressività dei motorini smarmittati degli adolescenti. Per rifornirsi di cibo, che ridusse a quantità minime, nel supermercato sotto casa scelse l’orario a ridosso della chiusura notturna o dell’apertura diurna. Smise di leggere l’Agakure e si dedicò con abnegazione al meditare. Atto che ai più sembrerà coincidere col riflettere e che invece no, sta proprio nel non meditare su niente : svuotare la testa dalla riflessione, dalla concatenazione del pensiero ; sembrerebbe facile ma non lo è. La vita quotidiana divenne un duro esercizio di negazione. Ma non bastò. Inzigata a prevedere se domani sarebbe piovuto finalmente, la mente di Tómbolo non forniva risposte. Nemmeno la semplice intuizione di chi suonasse il citofono sembrava possibile. Niente da fare. A mali estremi, si dice… bene mr. Tómbolo foderò di pannelli isolanti tutte le pareti di una stanza cieca che non gli serviva ad altro che per stendere il bucato ; foderò anche la porta, sistemò i cuscini per la meditazione. Vi si chiuse dentro dapprima alcune ore, al buio, in quella che a Guantánamo chiamano cella di deprivazione sensoriale. All’inizio il senso di galleggiamento nel nulla con gli occhi alla deriva sul proprio fondo, le orecchie che distinguevano a malapena il ritmo cardiaco, il respiro e il suono occasionale della deglutizione, lo incoraggiarono ; tuttavia di vedere al di là della vista non era in grado. Così arrivò a rinchiudersi nella camera per tutto il giorno, uscendo per nutrirsi a giorni alterni e poi ogni due giorni, poi due volte la settimana e dedicando alle necessità della vescica e dell’intestino solo pochi tuttavia indispensabili minuti… niente da fare. Anzi si accorse che più passava il tempo lì dentro più era aggredito da ogni genere di sensazioni, come in un sogno a intermittenze, popolato di incubi ; fu preda di ansie lancinanti, ogni tanto sveniva ma si accorse che gli istanti di deliquio erano in realtà di riposo prima che riprendesse a tormentarsi. Naturalmente era convinto che tutto ciò lo avvicinasse al traguardo : la visione. Però niente.

In una mattina di freddo inusuale e dopo una notte passata insonne incerto tra l’allucinazione e l’anestesia, piangendo sonoramente si slanciò freneticamente fuori dalla stanza : ogni suo sforzo era vano. Gli dèi non gli concedevano il dono. Mangiò per disperazione e riflesso una colazione di frenetica abbondanza poi, cosa che faceva di rado ma faceva, accese la radio e ascoltò : di lì a poco sarebbe stata ben visibile un grossa eclisse di sole. L’annuncio gli sembrò un oracolo. Aveva tempo. Si lavò con cura, rasò e pettinò, si vestì e quando la prima ombra prese a oscurare la città scese in garage e in auto si diresse verso una collina artificiale che sorgeva al centro di un non piccolo parco periferico. Era quasi mezzogiorno ma non aveva fame. L’eclisse era, se si può dire così al suo zenit. Gli uccelli erano chi lo sa se perplessi e in ogni modo taciturni, pochi cani, a passeggio con i loro padroni, zampettavano loro accanto a coda bassa. Non è il caso di descrivere il fenomeno in sé ma è che mr. Tómbolo lo osservava per la prima volta in vita sua. Volse lo sguardo al cielo. Vide il cerchio del sole fiammante intorno alla luna nera e lo fissò con determinazione. Gli occhi furono presi da un dolore che divenne in pochi istanti  straziante. Si costrinse a non chiuderli. Il sole in breve lo accecò. A sera, una pattuglia della polizia incontrò mr. Tómbolo rigato di lacrime e moccio e incapace di muoversi senza andare a sbattere. Era ferito, graffiato e sanguinante. Felice forse di essere stato ritrovato ma consapevole di aver perso la vista e anche la visione.

L’immagine di apertura è di Nigel van Wieck – Coat-check girl

Pasquale D'Ascola

Pasquale Edgardo Giuseppe D'Ascola, già insegnante al Conservatorio di Milàno della materia teatrale che in sé pare segnali l’impermanente, alla sorda anagrafe lombarda ei fu, piccino, come di stringhe e cravatta in carcere, privato dell’apostrofo (e non di rado lo chiamano accento); col tempo di questa privazione egli ha fatto radice e desinenza della propria forzata quanto desiderata eteronimìa; avere troppe origini per adattarsi a una sola è un dato, un vezzo non si escluda un male, si assomiglia a chi alla fine, più che a Racine a un Déraciné, sradicato; l’aggettivo è dolente ma non abbastanza da impedire il ritrovarsi del soggetto a suo Bell’agio proprio ‘tra monti sorgenti dall’acque ed elevate al cielo cime ineguali’, là dove non nacque Venere ma Ei fu Manzoni. Macari a motivo di ciò o, alla Cioran, con la tentazione di esistere, egli scrive; per dirla alla lombarda l’è chel lì.

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