Grandi riflessi – James Joyce: Dubliners

James Joyce

Titolo: Dubliners

Autore: James Joyce

Prima edizione: 1914

Edizione usata per la recensione: Penguin, 1996

Leggere la celebre raccolta di racconti Dubliners (tradotto in Italia come “Gente di Dublino”) di James Joyce è come annusare l’aria e sentire dentro le narici tutti gli odori, i profumi, nonché l’olezzo delle vie, eleganti o popolari, linde oppure sudicie, della città che diede i natali a questo grande scrittore irlandese: Dublino. Sembra, inoltre, di ascoltare le voci degli abitanti che la popolano: sommesse per non farsi udire, smorzate da un’emozione improvvisa subito repressa. Sono proprio loro, i dublinesi, concittadini di questo grande artista, esule per scelta, a fare da protagonisti in questa preziosa opera.

In quindici racconti, pubblicati nel 1914, Joyce ritrae le minute esistenze di uomini e donne di ogni età, costretti fra le mura della loro mente ancora prima che fra quelle domestiche. Per praticità, le storie che compongono il testo potrebbero essere suddivise in grandi categorie, a seconda dell’età dei personaggi e del loro ruolo sociale: fanciullezza, adolescenza, età adulta e vita pubblica. Così, almeno, si insegna a scuola, anche se di fatto vi è un comune denominatore a tutte le vicissitudine narrate, perché il vero, grande tema di fondo è la paura o l’incapacità di vivere. La stessa ansia, la stessa angoscia che dovette spingere James Joyce ad abbandonare Dublino, per poter finalmente esprimere il proprio talento artistico libero dalla ristrettezza mentale e dal rigido moralismo della terra d’origine, pervade anche l’animo dei personaggi, perennemente divisi fra il desiderio di cambiamento e il terrore del suo verificarsi, fra la percezione della realtà quale è e le proprie illusioni.

Esempio emblematico è “Eveline”, nel quale la giovane protagonista altri non è che un’infelice ragazza, rimasta orfana della madre e costretta a vivere con un padre troppo avvezzo all’alcol, e un fratello sempre lontano per lavoro, alla quale la sorte sembra offrire un’improvvisa possibilità di svolta. Si innamora, infatti, di un giovane marinaio, Frank, il quale le chiede di partire con lui alla volta dell’Argentina per cominciare, insieme, una nuova vita. Eveline, inizialmente intenzionata a seguire l’amato, ed eccitata all’idea di poter liberarsi di una triste e monotona esistenza, lentamente si fa vincere dalle proprie paure e, in particolare, dal ricordo della promessa fatta alla madre in punto di morte: quella di occuparsi della famiglia. Il giorno in cui Frank l’attende, ormai pronto a salpare, la fanciulla sperimenta un senso di profonda paralisi: incapace di muoversi, totalmente bloccata dal terrore di ciò che sta avvenendo, la giovane resta a fissare immobile, al porto, la grande nave andarsene via per sempre. “Paralisi” è, del resto, un termine chiave nei Dubliners di Joyce: è sia una condizione fisica che mentale, una forma di auto-privazione dell’anima che, soverchiata dai propri timori, si aliena la possibilità di condurre o, almeno, tentare di condurre un’esistenza piena e appagante.

Altra parola fondamentale è “epifania”, come quella descritta nello splendido racconto “Araby”, in cui il narratore in prima persona è un ragazzino, invaghito della sorella maggiore di un compagno di giochi. L’ingenuo sognatore trascorre ore a struggersi per la sospirata fanciulla, la quale abita proprio nella casa di fronte alla sua, sbirciata attraverso le persiane socchiuse, nella penombra dell’ingresso, per non essere visto. Quando la vede andare a scuola, la segue sospirante da lontano e, giunto al biforcarsi della strada, invece di provare a raggiungerla, prende la via opposta e continua a sospirare solitario. Ovviamente, i due non si sono nemmeno mai parlati: puro amore platonico, quello del timido ragazzino si nutre di fantasia più che di realtà. A cambiare tutto (ma forse bisognerebbe dire ‘niente’) è, finalmente, il quasi casuale, brevissimo dialogo che intercorre fra loro, di fronte all’ingresso della di lei casa. La ragazza gli rivela che vorrebbe andare ad Araby, il bazaar orientale provvisoriamente allestito in città, ma che non potrà farlo, a causa dei suoi impegni di studio. Da questo momento, il protagonista non fa che fantasticare su cosa potrebbe comprarle al bazaar, per sorprenderla o forse solo per confermare un amore che spera essere già ricambiato. Araby diventa, nella sua mente, un luogo mitico, un miraggio da inseguire a tutti i costi, e Joyce ci condanna a condividere tutta l’ansia e tutto lo struggente patimento dell’improvvido sognatore. Ci conduce, infatti, attraverso una mirabile descrizione dell’attesa, in apparenza infinita, di questo evento: lo zio che tarda a rincasare e concedere al nipote l’autorizzazione a recarsi al bazaar, nonché i soldi per acquistare qualcosa, la lotta contro il tempo fra le vie di Dublino per arrivare prima che tutto chiuda, il treno solitario e deserto, ovviamente lentissimo, per giungere a destinazione. Proprio quando il ragazzino giunge ad Araby, fra le bancarelle ormai quasi vuote o in procinto di svuotarsi, gli ultimi visitatori pronti a togliere il disturbo e tornare a casa, ogni lettore dotato di buon cuore avrebbe la tentazione di chiudere il libro, non fosse che per risparmiarsi di assistere all’infrangersi impietoso di un sogno. Joyce, tuttavia, non offre scampo: avviene, fatalmente, una piccola, grande rivelazione, un’epifania, appunto, che dischiude una altrettanto piccola, grande verità. Non compra nulla, il ragazzino, e qualcosa – nell’aria, nelle poche voci intorno, nei pochi gesti, nella luce e nell’ombra – lo mette di fronte alle proprie illusioni: non ha senso, semplicemente non ha senso quello in cui, fino allora, ha creduto. Questa, però, è un’interpretazione, una razionalizzazione di una situazione ben più complessa, dove la psicologia del personaggio è un tutt’uno con il luogo in cui è cresciuto e vive.

Molti altri racconti potrebbero essere menzionati, ultimo a comparire nella raccolta ma, secondo i critici, forse primo per importanza, “The Dead”, “I morti”, in cui un’altra epifania dischiude a uno stimato dublinese le sue false certezze sulla vita e sui sentimenti. A chi ancora non lo avesse mai fatto, resta soltanto da leggere questo formidabile esempio della letteratura del Novecento, in grado di esercitare ancora un grande fascino, intessuto com’è di ansie e di tematiche che, in un certo senso, riguardano anche noi.

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Elisa è docente in un liceo, dottore di ricerca in Anglistica e giornalista pubblicista

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